Archive for the 'Itinerario di Silenzio' Category

PER ISTRUIRE I SORDI CI VUOLE SERIETA’!

Domenica, Agosto 31st, 2014

Domenica 31 Agosto

Mi sono stufato di predicare al vento perché i sordi abbiano una buona istruzione. Ci sono gruppi che lavorano nel settore «sordità» che si guerreggiano l’un l’altro per sopraffarsi a vicenda e avere il campo libero per dimostrare d’essere «i migliori».

Gli insegnanti, in questo scontro, si trovano in svantaggio di conoscenze: non possono contrapporre approfonditi studi di psicologia, di neurologia e/o di linguistica eccetera. Rimangono semplicemente insegnanti che, ahimè, si considerano limitati nella complessità d’istruire e educare i sordi!

Lo Stato è assente in questo settore: e lo è perché, da decenni, delega il compito a gente formata alla carlona e non selezionata per titoli accademici o esami. Il MIUR non impone punti fermi sul programma di formazione, sulla disciplina che dovrà essere insegnata dal docente allo studente sordo o ipoacusico (in particolare nella secondaria di 2°), non c’è il supporto di conoscenze specifiche necessarie (e fondamentali!).

Oggi assistiamo ad una formazione aleatoria, talvolta vuota di contenuti didattici che, alla fine, accontenta solo gli assistenti o i tuttofare che traggono, dal «pressappoco» in cui sono lasciati i docenti (nel nostro caso dei sordi e/o ipoacusici), un tornaconto.

Renato Pigliacampo

Per lo Stato italiano i sordi sono un peso: con la professionalità dei docenti diventino una risorsa

Martedì, Agosto 26th, 2014

lunedì 25 agosto 2014

  

  

La verità è che dall’accettazione dei sordi, dal 1977 in poi, nella scuola comune dobbiamo affermare, con amarezza, che l’inclusione non è avvenuta (forse solo nella scuola dell’Infanzia) perché giammai il ministro/a dell’istruzione si è seriamente impegnato/a per far sì che i docenti raggiungessero la competenza didattica e linguistica per fornire «il pasto culturale» (cfr R. Pigliacampo, Parole nel movimento. Psicolinguistica del sordo, Armando, Roma 2009) nei processi apprenditivi agli alunni e studenti sordi.
È in questa inaudita assenza del MIUR verso il sordo o l’ipoacusico (o chiamatelo come vi pare) a frenare ogni progresso culturale e professionale dei sordi.Le grandi associazioni nazionali, alle quali lo Stato ha delegato dei compiti (cfr legge 30 ottobre 2013, n. 125) hanno operatori perlopiù non professionali per focalizzare tematiche e problematiche dell’istruzione; ecco allora che – invece di formare ottimi docenti specializzati – si decide di passare la patata bollente agli Enti Locali, che forniscono un cosiddetto «assistente tuttofare», che sarebbe, secondo i casi, di comunicazione o per altre emergenze, anche igieniche.  

Tutto ciò induce a dubitare che lo Stato italiano non «sopporta» i disabili, in primis i sordi.

Renato Pigliacampo

LA SUPERBIA DEI SOMARI

Domenica, Marzo 9th, 2014
di Renato Pigliacampo
Ho già  scritto  in alcuni libri e principalmente in  (Cfr Renato Pigliacampo, Parole nel movimento. Psicolinguistica del sordo, Armando, 2009)  che la lingua è potere. Ma non ho indicato con  quale modalità questo potere  possa  essere  esercitato. Infatti tutti gli individui per confrontare le proprie potenzialità intellettive (compresi taluni animali) mettono in gioco i codici che possono essere veicolati  nei codici visuomanuali  (i segni), grafici/pittorici, filmici e verbali. In questi codici noi individuiamo il medium (il messaggio).

Ora è risaputo che tutti i sordi che comunicano  -  in primis i docenti di LIS – utilizzando la lingua visuomanuale lo fanno su una struttura grammaticale propria     della LIS. Tuttavia per apprendere una grammatica tanto differente da quella  utilizzata dal canale sonoroacustico dello stimolo-risposta (cfr B. S. Skinner) è necessario seguire un percorso  temporaneo di evoluzione  che, nel sordo, inizia  sempre  dopo rispetto l’udente. Infatti è accertato che, il bambino udente, ha stimoli sensoriali uditivi già fra il 6° e il 7° mese di gestazione. Il bambino con problemi d’udito (affermiamo in  questo caso di sordità ereditaria o per altri accidenti) il processo di stimolo avverrà più tardi, ossia post nascita e sarà differenziato rispetto al coetaneo, ovvero uno stimolo  visivo.
Quanto sopra ci conduce a riflettere sulla genesi di produzione  dapprima della lingua e poi del linguaggio in un modus percettivo differente che va spiegato nel processo di apprendimento e di memorizzazione e, ovviamente, nell’utilizzo. Ne ho già accennato nelle ricerche e  studi: troppi sordi in possesso di limitate letture psicolinguistiche sono carenti di attenzioni sul libro di H. G. Furth, Pensiero senza linguaggio, Armando editore, 1971 (1^  edizione italiana!). Un libro ripubblicato più volte nell’edizione italiana ma sempre con limitata conoscenza  della psicologia del bambino sordo o ipoacusico nel suo intrinseco “farsi lingua”  (apprendere il codice) e  poi sviluppare il linguaggio  che è, appunto, un veicolo di scambi nella/della comunità  pregno di emozioni. Molti sordi docenti di LIS ripetono frasi fatte quali «la LIS è la mia lingua», «la LIS ha tutto ciò che ha la lingua verbale», «io sono LIS» e quanto altro portato in piazza o/e nelle aule scolastiche lasciando sbigottiti gli insegnanti curriculari.
In questo valzer di santa ignoranza ogni tanto appare sulla terza pagina di cultura dei giornali o delle riviste studi e interviste di fama quali  N.  Chomsky, di F. Grosjean, di Tullio De Mauro, di  W. Stokoe che ci tranquillizzano con altre frasi quali «la lingua dei segni è lingua!». Qualche  docente sordo di lingua dei segni, perlopiù con pochi esami accademici e studi approfonditi sulla teoria della lingua, sulle aree cerebrali che sopraintendono la produzione del codice (segnico e/o sonoroacustico) ripetono alla lettera le solite frasi fatte: «è la lingua dei sordi», oppure qualche udente pregno di pregiudizi e frettoloso annuncia frasi alla carlona quali:  «la LIS – nel nostro caso – blocca l’apprendimento verbale» o, peggio, «la LIS impedisce al sordo di strutturare la comunicazione scritta». Nessuno si chiede se la LIS è insegnata bene; se la lingua italiana ai sordi è insegnata male e/o perché.
Ci sono altre domande fondamentali: per esempio la strutturazione dei «codici» per veicolare la cognizione della specifica materia d’insegnamento. C’è un buon numero di  sordi frequentanti l’Università per conseguire la laurea, spesso fruisce del servizio di interpretariato visuomanuale, vale  a  dire  di codici visivi. Non sempre si può avere, come interprete di LIS, una  interprete laureata nella disciplina del corso di laurea dell’utente sordo, pertanto a volte - più che “segnare” codici appropriati che non sono in voga - l’impegno dell’interprete è solo optare  per la ripetizione  letterale della parola.
Io non sto a pontificare che l’interprete non sia all’altezza  di «tradurre» il contenuto di ciò che lo studente ha studiato sul testo  dell’esame. Vi ricordo che il libro o i libri su cui – a livello accademico – sono scritti per accedere all’apprendimento e di fatto preparare gli esami avvengono >(nel nostro caso) in lingua italiana nel linguaggio specifico della materia. Pertanto ciò induce alla elementare attenzione dell’utilizzo di un «codice» visuomanuale che veicoli i profondi contenuti del testo.  Questa sortita sulla  codificazione  di “segni specifici” che, ovviamente, deve  essere ben conosciuta  fra traduttore  e l’utente vale per tutte le materie insegnate! Ecco che s’apre un dibattito che  ci conduce ad un percorso d’insegnamento della lingua dei segni che implica intrinsecamente diramazioni settoriali nella materia  di Lingua dei Segni nella  sua  specificità, ben  individuata da William Stokoe (cfr Sign Language Structure, 1960).
In conclusione, senza accedere in una critica né alienante né umiliante verso i docenti sordi e/o udenti che, con buona volontà,  s’impegnano a diffondere la lingua dei segni italiana abbiano l’umiltà di apprendere tutti i fondamenti  cerebrali di attivazione  della «lingua»: una volta compreso a  fondo quanto sia complessa allora si lavorerà sui  presupposti di evoluzione caratterizzanti la lingua visuomanuale, godendone tutta la doviziosità e che fa dire al genio di Leonardo da Vinci i«sordomuti sono maestri dei movimenti e intendono da lontano di quel che uno parla, quando egli accomoda i modi delle mani con le parole».
Renato Pigliacampo

PER APPROFONDIRE:

RIFLESSIONE DI TODOROV

Giovedì, Febbraio 20th, 2014

giovedì 20 febbraio 2014

Riflessione di T. Todorov

Notizia. Quanto segue è un paragrafo di un testo che oscilla tra esperienza personale vissuta nel Silenzio e la “società Silente” (badate bene). C’è stato un periodo di vita in cui sono “stato fesso” - volutamente cosciente - ma in silenzio e destrezza ho alzato le mie antenne in alto, studiando uomini e donne con i due sensi superiori (la vista e l’udito): ieri fanciullo e preadolescente con l’udito e, poi, con le potenzialità della percezione visiva, allontanandomi in una nicchia esistenziale tutta mia. Ciò che leggerete è solo un paragrafo di una lunga storia. «Li seppellirò col perdono».

RIFLESSIONE DI TODOROV
In altri luoghi del Picenum, dove erano emigrati gli assegnatari di Ortus, ognuno metteva radici secondo le proprie idee, ambizioni e intuizioni. E si capisce di più la maturità di un uomo nella libertà d’iniziativa, nel momento in cui gli dici sei il padrone di queste terre o cose, piuttosto di cento raccomandazioni. Perché – facendogli il sermone su questo o quello - finirà di dimenticarsene una parte e l’altra la nasconderà a se stesso per timidezza, per vergogna e per paura: e tu prima o poi lo scoprirai.La storiografia ufficiale, riferendomi agli storici di professione ogni tanto (sull’influenza dei politici del momento) ha buone ragioni per cancellare e/o riscoprire il passato. Oggi abbiamo troppe informazioni che ci giungono confuse e, pertanto, impossibilitati a governarle per i nostri bisogni. Non si fa più storia ma pettegolezzo.

La critica che scava scava va spersa o ci si apre, a seconda dei casi, ad un feeling. I fatti sono descritti in modo rapido: uno zigzag senz’anima, sebbene uno storico pregno di sentimento sia capace di scrivere un romanzo. Tuttavia Tzvetan Todorov, al quale sto pensando, più che uno storico sa essere semiologo, ma c’ azzecca quando dice che esiste un surplus d’informazione. «Il rapporto individuo-informazione si è ribaltato.

All’inizio del Novecento il problema era ottenere informazioni: viaggiare era difficile e costoso, poche persone potevano disporre di conoscenze dirette. Gli archivi erano parziali. Oggi il vero problema è come avere meno informazioni, come ‘eliminarle’.» La televisione ci porta a visitare tutti i paesi del mondo. L’isola di Pasqua e l’Antartide non sono più misteriosi e irraggiungibili. E dice sempre il nostro: «L’uomo si chiederà come ritrovare la freschezza dello sguardo, come riscoprire (…). Discorso che non vale solo per lo spazio, ma anche per il tempo: riceviamo una messe di informazioni superiore alla capacità di selezione di ogni individuo.»
Lasciamolo parlare ancora: «La dittatura cercava di utilizzare la memoria, impedendola. Oggi avviene qualcosa di diverso: si crea una sorta di saturazione dell’informazione e si devono fare i conti con la memoria del computer che è minacciosa.»
Perché?
Il saggio Todorov continua: «Il computer possiede solo informazioni stoccate.»
Proseguendo: «La memoria dovrebbe essere sempre ‘scelta a gerarchia’ e non accumulo, perciò quella del computer non merita il nome di memoria.»
Perché?
«La memoria umana elimina il novanta per cento di ciò che riceve, lo organizza, sceglie.» Continuando: «Che significato potrà mai avere la storia del nostro Paese se, schiacciando un bottone, ci sfileranno davanti agli occhi migliaia di foto, date storiche o altre cose, senza distinzione tra gli argomenti decisivi e quelli che non lo sono?»
E allora?
Ecco perché anche questa merita di chiamarsi dittatura: è di altra natura ma il risultato è identico a quello prodotto dall’assenza di ogni interpretazione. Rischiamo di diventare ciechi e ignoranti.» (1)
Renato Pigliacampo
(1) Cfr T. Todorov «La memoria ci seppellirà» in Corriere della sera del 23 aprile 1996, p. 39

SUPERARE L’IMPASSE LOTTANDO CONTRO L’IGNORANZA PER ESSERE SE STESSI!

Lunedì, Febbraio 3rd, 2014

lunedì 3 febbraio 2014

Nel Nuovo Testamento si parla dello «spirito muto», ovvero di “alalos”. Padre Vicenzo Di Blasio, noto studioso  sui sordi  nel periodo dell’Antichità, ci fa sapere  che la parola  greca  alalos è formata dalla “a” privativa e dal verbo laléo, (parlo), di cui sortisce  appunto «alalos» che sta ad  indicare “colui che non parla”.
Ma tutti  sanno, a meno che non siano  kofos (vuoti), che si può  comunicare senza per forza  utilizzare la loquela.  Senza  seguire i tanti studiosi  che hanno trattato la  comunicazione senza esprimersi a voce, facciamo un salto  con psicologi moderni, in primis, H. G. Furth, di formazione  statunitense, il quale  è stato il  primo a diffondere l’attenzione sull’intelligenza dei sordi, col libro  Pensiero senza  linguaggio. Implicazioni psicologiche della sordità, Armando editore,   (prima edizione in Italia 1971!), seguirono molte riedizioni e  ristampe.

Di fatto la  ricerca ci conferma che il linguaggio si sviluppa anche senza la  peculiarità del consueto canale  sonoro-acustico.. Qui  s’apre un gran dibattito. Con eccellenze  e  dispute e le relative diatribe fra filosofi del linguaggio e  linguisti puri dalla metà se secolo scorso ad oggi. Mettendo punti fermi  sulla “lingua” e  sul “linguaggio”.  Molti sordi, studiosi  della  LIS, la lingua italiani dei segni, fanno fatica – se non possiedono seri studi di base  di autori da  Chomsky a Grosjean, da Stokoe al nostro De Mauro, da  Piaget a  Sapir e tanti altri, senza  scordare   (de) Saussure col suo Corso di linguistica generale – ad approfondire, con un’attenta analisi critica e comparativa (e ovviamente  grammaticale) la lingua che si evolve e memorizza per  via del canale visuomanuale da  quella che  si fonda  sul canale  sonoro-acustico.

Oggi non si studia più, salvo rari casi di specialisti, il pensiero dei sordi.  È pur vero che  si è tentato, in questi sei lustri, dall’accoglienza (cfr legge 517/1977) dei sordi nella  scuola pubblica, di mascherare il termine «sordomuto», sino all’approvazione della legge 20 febbraio 2006, n. 95 che, giustamente, ha imposto che  fosse  abolito il vecchio  termine a favore di «sordo» in tutte le istituzioni burocratiche  che  trattassero i diritti dei sordi. Letteralmente ci fu un salto enorme (e  tante contraddizioni, cfr Renato Pigliacampo, Parole nel movimento. Psicolinguistica del sordo, Armando, 2009) dal  termine sordomuto (periodo del Congresso di Milano del 1880, guidato da Mons. Giulio Tarra, che  imponeva di «insegnare la parola con la parola»  (ma nelle  sue  scuole c’erano ancora le effigi  specificanti “Istituto per Sordomuti”  e all’attuale, come  detto “sordo”. Ma  l’evoluzione del mutamento della parola continua   facendo  supporre  che  avviene perché -  da  una  parte non si intende macchiare la famiglia dall’altra per rivalutare molte professioni allo scopo che, ad ognuno,  sia offerto uno spazio operativo e quindi occupazionale.
La  sordità  è  diventata terra promessa  come una  volta  i nostri emigranti speravano  di trovare lavoro nelle estese terre  argentine  o  in Brasile per sopravvivere alla fame.
Più che mai è urgente un settore statale, che potrebbe  essere  un ente parastatale, come  era  una volta l’ENS, perché metta fine all’ambiguità e alle disgrazie dei sordi siano adulti che in età evolutiva.
Interverremo ancora (sulle  tematiche).
Renato Pigliacampo



LA VOCE VERBALE

Sabato, Novembre 23rd, 2013
Quante volte ho letto - e ascoltato nel tempo della mia infanzia e fanciullezza uditiva - la parola! Quando si pensa alla «parola» si fa riferimento, per il 99% dei casi, alla parola verbale. Ma effettivamente che cos’è? Io la considero come vestire il «segno» di sonorità. Lo costatiamo nei bambini udenti. Ci vuole quasi un anno di vita per raggiungere l’autonomia di produrre tra le 12-20 parole. Sebbene ne comprendono molte di più, l’apparato fono-articolatorio ancora non è pronto perché il piccolo possa pronunciare correttamente le parole.

È sottomesso alle tappe di sviluppo del linguaggio: dai primi vocalizzi alla lallazione, dall’unione dei fonemi-sosia al morfema e via via verso l’appropriarsi della lingua della comunità. Ciò che scrivo sono elementari informazioni psicolinguistiche che, ogni studente di scienze della formazione conosce e, per gli psicologi, una routine ripetitiva.
Per secoli i sordi(muti) sono stati sollecitati a parlare a voce, cioè a divenire «altro». Sottomessi ad un comportamento improprio, non sperimentato. Gli educatori dei sordi compivano il massimo sforzo per far sì che i propri allievi ‘emettessero’ la favella. Il processo di demutizzazione faceva sì che fosse eliminata, appunto, la mutezza. La scuola era chiamata a «dare la voce il più possibile normale»: e l’impegno si estendeva per tutto il ciclo scolastico. Talvolta gli anni, per la frequenza della stessa classe, venivano raddoppiati per dare, al docente,  il tempo necessario d’impostare l’articolazione delle parole.
Ricordiamo che l’insegnante svolgeva, ai miei tempi, la doppia funzione di riabilitatore logopedico e docente di didattica. Ma i direttori delle Scuole, o gli Ispettori fermavano l’attenzione solo sulla capacità di parlare con i codici verbali, piuttosto di indagare sull’apprendimento, sui concetti, sul pensiero. I sordi erano allenati allo psittacismo, un parlare a vuoto, nozionistico. «I gesti» e la «mimica», come erroneamente indicati, avevano l’ostracismo nelle aule scolastiche. Il metodo oralista dominava sovrano in ogni dove d’Italia. Nelle aule di molti Istituti regnava, sulla parete, lo sguardo di Mons. Giulio Tarra che, con autorità nel famosissimo Congresso  di Milano del 1880, aveva indotto i convegnisti a votare, senza indugi, la sua mozione «d’insegnamento della parola con la parola» (v. Atti… ).
I docenti venivano selezionati per la maestrìa di “come si insegna la parola”, piuttosto per le conoscenze didattiche, o dei processi percettivi. Se ci riflettiamo procedendo criticamente ci avvedremo che, i sordi, erano sottoposti al coattismo linguistico. Negli anni futuri della maturità, dopo aver studiato (e non solo letto, sic) all’Università i linguisti, approfondito i processi  di sviluppo del linguaggio, mi sono accorto che i maestri di allora (e i miei insegnanti) erano terrorizzati  al pensiero che ci lasciassero «senza favella», muti verso il nostro domani. L’ignoranza faceva sì che ci impedivano l’accesso alla naturale funzione dell’ascolto, vale a dire la nostra attitudine di sviluppare la lingua del vedere.
Molti docenti credevano che, il possesso della lingua vocale, conducesse al trascendente, al ragionamento. Schiere di pedagogisti clinici, dall’antesignano Itard (v. Il ragazzo selvaggio dell’Avayron), si scervellano sulla lingua. Ogni generazione di docenti  - cosiddetti specializzati - «inventavano» un metodo per «far parlare i sordi», «per insegnare la lingua normale (sic!) a sordi». Sempre a battere lo stesso tasto: e sempre i bambini sordi obbligati allo stress della parola. Nessuno si poneva la domanda quale realmente fosse il compito di un educatore? Io deduco che tale compito consista nel favorire la gioia di vita nel discente.
Ci volle il  francese Henry Laborit, scienziato di fama mondiale, nonno della sorda Emanuelle, autrice del libro autobiografico Il grido del gabbiano che, con  la sua eutologia, dimostrò che la vera normalità consiste nel «star bene nella propria pelle». Questo l’ho compreso quando, componente della Federazione Mondiale dei Sordi, girando il mondo notavo che nessun sordo era infelice, emarginato, viveva bene nella propria pelle purché fruisse di strutture, di personale esperto per il superamento delle barriere di comunicazione.
Bisogna fare attenzione e chiarire: non è che i sordi rifiutano la parola verbale, la vogliono apprendere - dico apprendere perché è proprio così, il procedimento di acquisizione non avviene come nel bambino udente che è «vestito dalla lingua vocale» senza sforzo, nell’interrelazione sonoroacustica con l’ambiente.
Il sordo deve impegnarsi nel processo d’apprendimento, vale a dire «imparare». È uno sforzo cognitivo complesso. Se non c’è tale capacità, la minima possibilità di parlare a voce va dispersa. Gli «oralisti» non ci riflettono. Chiedono al sordo di diventare come loro, ma lo sforzo è sempre unilaterale; al contrario,  pochissimi udenti sono in grado di entrare nella doviziosità della lingua visuomanuale.
Certo, gli interpreti di lingua dei segni sono dentro il sistema linguistico dei sordi, ma raramente nella quotidiana comunicazione, a meno che non abbiano familiari o partner sordi, la utilizzano. Molti miei compagni sprofondavano nell’abulia, nella depressione, si caricavano di rabbia quando erano bloccati proprio in quel canale tramite cui avrebbero manifestato le loro potenzialità emotive e intellettive. Non riconosciuta la lingua dei segni - se non che quando erano utilizzati  anche i codici verbali della maggioranza - i sordi finivano per essere eliminati come persone capaci di «comunicare».
La loro intenzione d’essere soggetti con la lingua dei segni, lingua che doveva essere favorita e insegnata “proprio come una lingua”, e non avveniva, annullava anche la loro volontà d’apprendere la lingua verbale. Eccoli  allora senza nessuna lingua messi in mezzo alla comunità udente: ignorati nell’invisibile disabilità.
Renato Pigliacampo. Da Itinerario di Silenzio
PER APPROFONDIRE
Pigliacampo Renato, Parole nel movimento. Psicolinguistica del sordo, Armando, Roma 2007.

QUANDO IL RE E’ NUDO (per riflettere sulle nostre storie)

Sabato, Novembre 16th, 2013

 Una  volta un sordo,  bramoso  di gloria e  di applausi, vedendo che tanti suoi amici sordi  o udenti raggiungevano prestigiose presidenze e, di fatto, sedersi su comode poltrone di comando, dedusse che non  era  poi tanto difficile. “Provo anch’io” pensò.. Chiamò pertanto una cerchia di fedeli amici che addestrò così bene che, da lì a  poco tempo, riuscì nell’intento di sedersi sulla desiderata poltrona! Tuttavia non ci volle tempo per accorgersi che non era facile  come supponeva essere presidente perché bisognava saper ben parlare e conoscere la grammatica.  «A che serve la grammatica italiana?! Io ho la  LIS, userò la  grammatica della LIS per  parlare ai politici e al popolo udente!» pronunciò con presunzione a chi gli era vicino. Chiamò pertanto accanto a sé un’interprete personale per questo specifico compito, sollecitandola a tradurre alla perfezione il suo pensiero affinché le  istanze - del suo popolo  - fossero chiare ai politici.

L’ interprete factotum si dette da  fare perché la parola del suo presidente potesse raggiungere  Deputati e  Senatori. Passa un mese, niente, passa un anno nemmeno, nessun parlamentare si faceva vivo  col presidente per accogliere le istanze dei sordi! Una mattina, molto contrariato, il capo  dei  sordi chiama la  sua assistente personale di LIS e di  lingua italiana domandandole:

«Come  mai nessun politico mi risponde?  Lei mi traduce male

La  collaboratrice si vede offesa rispondendo piccata:

«Io ho sempre tradotto e interpretato in meglio il suo peggio: e  questo pure nell’ultima traduzione, ma  mi sono stufata di riempire la sua zucca  vuota.  Ho  deciso, da  oggi in  poi, di non studiare più o di inventare passabile discorsi per lei!.»

Il presidente aveva capito che era kofos (vuoto) e, umiliato, ma finalmente sereno, comprese che ogni poltrona impone un sacrificio sia a  se  stesso che agli amici onesti e tanto più ai compari  che ti hanno aiutato,  i quali saranno poi i primi a buttarti in mare. 

 Renato Pigliacampo

> Da Storie del Silenzio

Sabato, Novembre 16th, 2013

ACCETTARE O NO LA SORDITA’?

Mercoledì, Ottobre 16th, 2013

  

Per comprendere meglio il mondo del Silenzio presento, ai miei lettori, due realtà: l’una di persona che si accetta nella sordità, l’altra la sfugge e combatte. Credo che abbiate udito o letto la parola eutonologia. Studia la scienza di «star bene nella propria pelle». Proposta dal filosofo e biologo Henri Laborit, nonno di Danielle, sorda, attrice e autrice del libro autobiografico Il grido del gabbiano.

Molti sordi dalla nascita o divenuti tali durante lo sviluppo chiedono alla società di maggioranza d’essere compiutamente nella propria pelle. Molti incontrano difficoltà in questo, anzi gli diventa impossibile. Ci sono genitori che, già nei primi mesi di vita del piccolo, decidono per l’impianto cocleare.
Ho un amico otochirurgo a cui ho chiesto quante possibilità ci sono (anno 2003) per percepire, non solo “sentire”, la parola nella completezza… Ha risposto: «Poche.»  Ciò indica che, l’imperfetto ascolto, limita la memorizzazione e, di poi, il richiamo mnemonico e la strutturazione del linguaggio sonoro-verbale. Agli impiantati (pare) venga limitata l’attività sportiva competitiva, talvolta anche ludica, attraverso la quale, molti di loro, entrano in relazione con i coetanei udenti riportandone gratificazione. Sono bambini impediti a divenire se stessi.
La sordità grave o meno grave conduce ad una complessa  struttura psicologica, ad una rielaborazione dell’Io. Ne ho parlato nelle mie ricerche sull’inconscio. Per ora mi ripeto affermando che la sordità  può essere considerata una filosofia esistenziale. Capisci gli altri da come tu sei accettato:  e trattato nella tua caratteristica di sordo. Il miracolo dell’Effata (apriti) non può sempre avvenire. Non puoi strapparti gli orecchi perché sei «sordo» negli orecchi. Ma se l’indicazione finisse qui non è un ludibrio, lo diventa quando ignoranza e pregiudizio della gente alienano mente e psiche!
C’è la persona sorda che non si accetta, non perché soffre la disabilità sensoriale, ma perché si scopre inconsiderata nella società o gruppo professionale o amicale. Ecco che il tutto si sposta nell’accettarsi  d ‘essere accettato in ciò che  si è !
Ho visto nel corso della mia attività professionale di  psicologo decine e decine di drammi: genitori in lite per accelerare l’educazione del figlio «a parlare bene». Come se l’obiettivo parlare fosse l’unica etichetta visibile per accedere alla cosiddetta normalità, da far «udire» al parentado, ai vicini di casa. Ho visto ragazzine sorde allontanate dai coetanei o giovani simili dalle rispettive madri e sospinte, letteralmente, nelle braccia dei compagni di classe udenti  «perché - essendo udenti - impareranno a parlare bene» dicevano.
Renato Pigliacampo. Dall’ Itinerario  Pensieri e  riflessioni dal Silenzio, scritto martedì 17 ottobre 2006  

LA POLITICA DEL «FARE» PER I DISABILI

Sabato, Settembre 14th, 2013

Scrivevo il (03.11.2011)   In genere si parla molto di sordità e dei sordi. Ma raramente i politici lasciano ai protagonisti l’opportunità di costruire un progetto che risponda alla soluzione dei loro bisogni; col trascorrere decenni e decenni nel mondo della sordità e dei sordi rivestendo i diversi ruoli - sia come dirigente di una grande associazione sia come docente di sordi nella scuola dell’obbligo e poi didatta nei corsi di specializzazione - posso confermare che, il sordo istruito bene e colto, diventa elemento pericoloso per tutta la società.Questo avviene perché matura una dura critica verso le azioni della comunità. Pertanto l’amministratore udente teme di finire nella gogna dinanzi agli occhi del “popolo spettatore” per essere tacciato d’insensibilità quando non è in grado di rispondere ai «bisogni speciali». E’ urgente che i politici preparino, in seno al proprio partito, delegati che abbiano sensibilità e intuizione per i «differenti» o i «diversi» per rispondere fattivamente allo status dell’altro. Da Pensieri e  riflessioni sul Silenzio, in via  di stampa.