Archive for Dicembre, 2007

Realtà nel Silenzio: esperienze

Sabato, Dicembre 29th, 2007

Ho letto recentemente una bella testimonianza di Martina Gerosa, architetto. Nata sorda, i genitori non si sono persi d’animo stimolandola a divenire se stessa, a superare l’ostacolo (…). Dell’esperienza nel/del suo mondo di Silenzio mi hanno colpito alcune definizioni che porto alla vostra attenzione.  Maestre e genitori, nel corso della vita, le hanno permesso di percepire la sordità come una «realtà amica». Scrive l’architetto Gerosa: «… talmente connaturata al mio essere che oggi non potrei immaginarmi udente.» Ponendosi poi la domanda: «Che cosa significa sordità?» Dice che un amico sordo, con la S maiuscola, le aveva risposto: «Mi sento sordo tra gli udenti, ma udente tra i sordi (…)» (Cfr. «Crescere e imparare insieme con una grave ipoacusia. Racconto di un’esperienza», in Handicap & Scuola, n. 136, nov.-dic. 2007, pp. 11-17). Proprio così. Mi viene in mente la risposta di un giovane udente, l’unico di una famiglia di sordi, anzi di generazioni di sordi: nonni paterni e materni, cugini, zii, zie… Si lamentava della sua condizione di udente perché, qualche decennio fa, per telefonare o avere contatti lontani non c’era né il telefonino né il fax. E il nostro giovane udente doveva servire, col suo udito, tutto il parentado. «Paolo telefona a questo»,  «Paolo telefona a quello»,  «Paolo avvisami se piange il bambino», «Paolo che dice l’amministratore del condominio?», «Paolo che dice la vicina?», eccetera. Un  giorno Paolo sbottò: « Buon Dio perché non mi hai donato la sordità?!».  Per Paolo era un dramma ascoltare perché doveva sobbarcarsi un servizio per  i sordi che la comunità di maggioranza aveva dimenticato. Il dramma della sordità, ancora oggi, è la mancanza di persone qualificate per rispondere ai bisogni dei sordi. Qualcuno può dire, nel costatare il servizio di interpretariato per i sordi, che  è soggezione, condinzionamento dipendere da altri. Ci sono, è vero, abusi dall’una e l’altra parte. Talvolta qualche interprete non è professionale e, per professionalità, intendo riferirmi a chi traduce meccanicamente, senza conoscere i contesti, i significati dei lessemi; pensiamo al linguaggio degli psicologi, dei medici, dei sociologi, degli architetti e così via. Occorrono interpreti adeguati ai professionisti che tengono un seminario, una lezione universitaria, cioè personale segnante laureato nella disciplina. L’architetto Gerosa ci comunica molte verità, conosciute dagli stessi sordi. Per esempio ribadisce la difficoltà della labiolettura sulle labbra di talune persone; lo stimolo, spesso fondamentale per l’intelligibilità della parola, delle vibrazioni; la serenità dei genitori uniti di vivere la sordità della/del figlio/a; la presenza, senza oppressione e ansia, del tutor esperto; la presenza nel soggetto di un’altra modalità di comunicazione; l’amore per la lettura; la curiosità culturale; la sdrammatizzazione degli insegnanti, dei familiari e del parentado sulla diversabilità. Ho incontrato tante persone sorde in questi anni che, all’incirca, il loro successo era fondato sul curriculum indicato.

A metà degli anni Settanta  del secolo scorso i laureati sordi si contavano sulle dita di una mano. Del mio gruppo mi ricordo del Dr Sebastiano Montalto, medico analista all’ospedale civico di Palermo, del Prof. Luigi Rizzo, docente di Lettere al “Magarotto” di Padova, del Prof. Carlo Semplici di Siena, docente di arte e disegno nei licei e di pochi altri di cui mi sfuggono i nomi. Oggi i  sordi di nascita o divenutili in età evolutiva laureati in Italia sono circa 150-200. Ci sono fisiatri, pedagogisti, psicologi, sociologi, biologi, medici, architetti, qualche docente universitario, ingegneri, statistici, avvocati amministrativi e così via e numerosi “dottorini” (laurea triennale). Possiamo affermare che le Università stanno adottando un atto di giustizia per trasformare l’alta cultura accessibile anche ai sordi gravi o agli audiolesi con la presenza del «prendiappunti» o di strumentazioni decodificanti il verbale, o dell’inteprete dei segni per chi conosce la LIS. Con l’approvazione  recentemente del consiglio dei ministri del Decreto legislativo sulla fruizione della Lingua dei Segni molti sordi  sono diventati coscienti delle proprie esigenze e diritti di partecipazione. La vecchia domanda del professore «Hai capito?» che per lo più dava una risposta affermativa, ma bugiarda, oggi il sordo l’ha trasformata in una veritiera che lo conforta: «Non ho capito perché non sa spiegarmelo.» Oppure: «In quest’aula non ci sono strumenti e personale perché io possa partecipare al processo cognitivo.»

Quando il professionista è sordo

Venerdì, Dicembre 21st, 2007

Spesso la mancanza d’ascolto per mezzo del senso d’udito mi impedisce, di fatto, comprendere quanto dice l’interlocutore: e questo diventa più evidente quando si è in gruppo. Perché ti blocca nel dibattito, di precisare. A me succede nel «gruppo udente». Quasi tutte le mie riunioni professionali o di approfondimento di ricerche e studi sono con persone udenti. Mi ricordo che quando esercitavo la professione di psicologo all’ASL di Civitanova Marche-Recanati sopportavo uno stress gravoso con i colleghi durante le riunioni settimanali, taluni bravi nell’impegno professionale e terapeutico, ma disattenti nel calarsi nella mia condizione di sordo. Innanzitutto le riunioni avvenivano senza considerare la posizione di chi prendeva la parola; ci si siedeva attorno ad un tavolo rettangolare, badate bene scrivo rettangolare e non rotondo o a mezza luna, e chi è sordo sa bene perché. Le labbra di chi parla sono ovviamente «personali», vale a dire possono essere con gli angoli rivolti all’insù, con gli angoli rivolti all’ingiù, con labbro superiore sollevato da un lato, con labbro superiore debordante, con labbro inferiore sporgente, con labbro superiore sporgente, con labbra carnose, con labbra sottili, con labbra serrate, con labbra socchiuse (…). Io, per seguire i colleghi che intervenivano per proporre la soluzione su un caso da trattare, dovevo allungare il collo passando dal movimento delle labbra di un collega all’altro, carpendo di fretta qualche termine o intuendone un altro, e dalle smorfie o dagli scatti d’ira del collega dovevo “costruire” l’argomento del quale si dibatteva. Non è facile entrare nel contesto per suggerire la soluzione quando non hai chiara coscienza del problema. Accumulavo stress che mi prostrava; di più mi umiliava il risetto ironico di un collega allorché sbottava incavolato: «Dr Pigliacampo che c’entra quel che dice con l’argomento proposto?!». Ero evidentemente fuori tema. Quelle improvvise sortite mi mettevano kaputt.  I colleghi si spremevano le meningi per la soluzione “del caso”: e le mie sortite estemporanee li irritavano e confondevano. Passavo per kofos, sciocco, vuoto. Oh, ma non sono il tipo che si perde d’animo io!Spesso trovavo soluzioni per l’impossibile. Più che «impossibile» bastava riflettere, mettersi nella situazione dell’altro perché lo svantaggio fosse risolto. Negli anni capirò che le difficoltà dei sordi le creano gli udenti perché non vogliono modificare le comodità dello statu quo.

E allora per risolvere il mio problema di comunicazione, durante le riunioni settimanali con i colleghi, puntai un giorno incazzato nell’ufficio del direttore sanitario dell’ASL urlandogli che non poteva obbligarmi a partecipare alle riunioni con i colleghi, ai corsi di formazione e di aggiornamento quando mi era impossibile labioleggere od entrare in relazione con i presenti. Il direttore sanitario, serafico, mi fece cenno di sedermi. «Allora Dr Pigliacampo» disse «l’interprete può essere fornito ad un sordo poco istruito o che svolga attività dequalificata, ma lei ha due lauree e un dottorato di ricerca!» La mia rabbia era centuplicata incendiandomi il volto. «L’interprete di lingua dei segni mi permetterà di comprendere perché, purtroppo, mi è difficile labioleggere l’interlocutore: muove la testa a destra e a manca, va di fretta o si mangia le parole, e le labbra…. »

   «Ah, allora vuole proprio quello che fa i gesti?» disse con ironia il direttore sanitario.

   «Senta, dottore» risposi altezzoso «non è quello che fa i gesti come lei dice, è una persona specializzata che traduce da una lingua in un’altra lingua, vale a dire dalla lingua verbale alla lingua visuomanuale e viceversa.»

   «Veramene… » scrollò il capo. Poi osai una frase offensiva senza emettere un fil di voce.

   «Sa che cosa le ho detto, dottore?» dissi.

   «No.»

   «Meno male! Per mia fortuna non è capace di labioleggere. Se non riuscite voi udenti che vivete ‘dentro’ le parole da sempre, come potete obbligare noi sordi a labioleggervi?»

   «Ho capito» disse. Di lì a qualche secondo alzò il telefono per chiamare la dirigente del servizio formazione e aggiornamento del personale per chiederle se, in bilancio, era prevista una spesa per il servizio di interpretariato o di traduzione. Passarono alcuni minuti. Poi  sulle labbra del direttore sanitario labiolessi «Tutto ok. Vada.»

Nella riunione della settimana successiva avevo a disposizione un interprete di LIS che “traduceva” gli interventi dei colleghi. Fu allora che mi accorsi delle mie capacità professionali che superavano di lunga quelle dei colleghi udenti; mi stupivo quando mi accorsi che trovavo soluzioni appropriate, e per me ovvie, per risolvere le problematiche degli utenti. Un giorno venne nella mia ASL un noto studioso americano per un seminario d’alta qualifica, e vedendo il mio interprete tradurmi i contenuti della relazione, con un sorriso durante una pausa, ebbe a dire:

   «Finalmente gli italiani usano meno la lingua e più le mani.»

La padronanza della lingua

Venerdì, Dicembre 14th, 2007

C’è qualche lettore del Blog che sollecita di portare esempi, prove, delle affermazioni sulle difficoltà di scolarizzazione dei sordi. I riscontri sono evidenti, basta contattare i docenti cosiddetti di sostegno (spesso inconsapevoli) che hanno in carico un audioleso o sordo, verificandone l’approccio interrelazionale col proprio scolaro, e la didattica adottata, per avere risposte esplicite (…). «Ho riflettuto sul fatto che l’unica cosa da fare consisteva rappresentare esattamente la lingua parlata con la visione, in tempo reale» ammette R. Orin Cornett. La sordità non è una malattia ma una filosofia, uno status. Noi sordi ci lamentiamo spesso di non essere compresi nel nostro essere sordo. Vero per un’alta percentuale. Parecchi però si fermano qui. Giunge a pennello la riflessione di Bochner e Albertini (1995): «La padronanza di una prima lingua nell’infanzia stabilisce le basi neurologiche per l’apprendimento delle lingue nell’età successiva e adulta. Se la padronanza in una prima lingua non è stata raggiunta all’inizio dell’adolescenza, come succede di solito nella popolazione sorda, il progresso nell’acquisizione è inibito o soppresso.» La maggior parte dei sordi resta senza una lingua principale: né lingua dei segni né lingua verbale. L’impianto cocleare non può supplire completamente alle carenze percettive dell’acustico-vocale; lo stesso è quando pretendiamo che il bambino sordo vada alla «scuola di linguaggio» pensando che, parlare, sia prerogativa esclusivamente di un processo meccanicistico, lontano dallo sviluppo dell’inconscio; si apprendono i segni linguistici, i codici di una lingua appunto, le regole grammaticali con cui ci caliamo nella dialogicità dell’interlocutore, ma non «il linguaggio»; nel sordo, con la  carente percezione del segno vocale, viene meno anche la conoscenza del gioco dei segni nell’ambiente, vale a dire nella comunità o gruppo in cui vive e interrelaziona. Molti sordi, quando parlano, sono scambiati per stranieri, proprio perché «imparano» la parola cognitivamente, ma non possono appropriarsi dell’accento, prerogativa di chi ascolta.

Trenodia di poeta

Giovedì, Dicembre 13th, 2007

Non stupirti, poeta, se la tua follia
di rincorrere parole d’amore
non accosti il volo dei sogni;
non crucciarti se le tue parole
rimarranno sorde alla gente
tanfata dal gruppo di potere;

dal volto non scendano lacrime
per chi non accoglie il tuo canto
che poni sulle ali del vento
nelle sere vaganti per il porto
dove alberghi per nascondere
al vecchio pescatore solitudini
del «borgo selvaggio di mare». (1)

Mai sarai vincitore in vita.
Sei tra il bene e il male,
di te ragionano con poco senno
senza approfondire la storia.
Sei cerchio di luce
nei raggi di sole che splende
sull’ultimo giorno di vita.
Testardo vai sino in fondo,
sì testardo per riempire l’urna
dove dormono le tue ceneri.

Forse qualcuno - pia illusione -
fermerà lo sguardo sui tuoi occhi
che puntano dall’avello l’orizzonte.

1. Riferito a Porto Recanati, in contrapposizione a “borgo selvaggio” (Recanati).
da Renato Pigliacampo, L’albero di rami senza vento, Iuculano editore, Pavia 2007. (info@iuculanoeditore.it)

Itinerario di Silenzio (Parola che sorge)

Martedì, Dicembre 11th, 2007

Mi rendo conto del valore e del gran dono della comunicazione allorché, partecipando qualche tempo fa ad un convegno de La Spezia, ho  incontrato Claudio Imprudente di Bologna. Egli, incarcerato tetraplegico, ha per esprimersi solo la «lingua degli occhi». Il suo assistente-interprete gli mette davanti alla visione una tavoletta alfabetica. Claudio ‘punta’ la lettera che lo interessa come il falco la preda. L’interprete «costruisce» la frase. Che fatica compie Claudio per destreggiarsi nel linguaggio degli occhi, per generare una ruga che significa emozione, il batter di ciglia che vuol dire ironia.(…) Ma pure la bravura dell’interprete attira stupore allorché decofica quegli occhi che svicolano via, anzi talvolta seducono la sinuosità della lettera. Gli occhi di Claudio seguono una grammatica precisa. Leonardo da Vinci aveva già scoperto la ricchezza del saper osservare. Molti udenti «sentono» ma non «ascoltano» la profondità della parola. Lo stesso i vedenti «vedono» ma non «osservano». Il nostro novello Socrate, con l’ausilio dell’interprete, riesce nella maiuetica della parola: eccola, è nata, inducendoci a riflettere quanta pochezza d’attenzione le diamo, anzi la prostituiamo per il nostro tornaconto proprio perché non valutiamo quanta fatica costi all’uomo che la veicoli pregna di idee e sentimento. Vorrei che i chiacchieroni o chi se le ritrovano pronte nelle orecche assistessero alle conferenze di Claudio Imprudente! E i giovani, soprattutto loro per imparare a rispettarle, spogliandole dalla superficialità e dal conformismo, ne penetrino l’essenza profonda socratica. Per Claudio Imprudente, a Lerici, dove i più noti poeti europei hanno arricchito il loro Canto, ho sollecitato il mio estro a testimoniare il coraggio di Claudio nelle parole che ci ha donato. 

PAROLA CHE SORGE

Nel golfo dei poeti, in Lerici azzurra
assisto ad una preghiera da Villa Marigola
di Claudio Imprudente tetraplegico
che punta gli occhi sull’alfabeto
per dirmi che vita è amore e pena.

Segno d’una parola che scende e sale:
egli la ricrea e lancia agli smarriti presenti.
Così io giunto dal Colle dell’Infinito
confermo il Silenzio del mio destino
nel mio essere segnante
comprendo la fortuna
di queste mani libere.
Apro gli occhi per vedere parole
e apprendo da te, Imprudente,
che la vita è coraggio e lotta.