Archive for Febbraio, 2014

RIFLESSIONE DI TODOROV

Giovedì, Febbraio 20th, 2014

giovedì 20 febbraio 2014

Riflessione di T. Todorov

Notizia. Quanto segue è un paragrafo di un testo che oscilla tra esperienza personale vissuta nel Silenzio e la “società Silente” (badate bene). C’è stato un periodo di vita in cui sono “stato fesso” - volutamente cosciente - ma in silenzio e destrezza ho alzato le mie antenne in alto, studiando uomini e donne con i due sensi superiori (la vista e l’udito): ieri fanciullo e preadolescente con l’udito e, poi, con le potenzialità della percezione visiva, allontanandomi in una nicchia esistenziale tutta mia. Ciò che leggerete è solo un paragrafo di una lunga storia. «Li seppellirò col perdono».

RIFLESSIONE DI TODOROV
In altri luoghi del Picenum, dove erano emigrati gli assegnatari di Ortus, ognuno metteva radici secondo le proprie idee, ambizioni e intuizioni. E si capisce di più la maturità di un uomo nella libertà d’iniziativa, nel momento in cui gli dici sei il padrone di queste terre o cose, piuttosto di cento raccomandazioni. Perché – facendogli il sermone su questo o quello - finirà di dimenticarsene una parte e l’altra la nasconderà a se stesso per timidezza, per vergogna e per paura: e tu prima o poi lo scoprirai.La storiografia ufficiale, riferendomi agli storici di professione ogni tanto (sull’influenza dei politici del momento) ha buone ragioni per cancellare e/o riscoprire il passato. Oggi abbiamo troppe informazioni che ci giungono confuse e, pertanto, impossibilitati a governarle per i nostri bisogni. Non si fa più storia ma pettegolezzo.

La critica che scava scava va spersa o ci si apre, a seconda dei casi, ad un feeling. I fatti sono descritti in modo rapido: uno zigzag senz’anima, sebbene uno storico pregno di sentimento sia capace di scrivere un romanzo. Tuttavia Tzvetan Todorov, al quale sto pensando, più che uno storico sa essere semiologo, ma c’ azzecca quando dice che esiste un surplus d’informazione. «Il rapporto individuo-informazione si è ribaltato.

All’inizio del Novecento il problema era ottenere informazioni: viaggiare era difficile e costoso, poche persone potevano disporre di conoscenze dirette. Gli archivi erano parziali. Oggi il vero problema è come avere meno informazioni, come ‘eliminarle’.» La televisione ci porta a visitare tutti i paesi del mondo. L’isola di Pasqua e l’Antartide non sono più misteriosi e irraggiungibili. E dice sempre il nostro: «L’uomo si chiederà come ritrovare la freschezza dello sguardo, come riscoprire (…). Discorso che non vale solo per lo spazio, ma anche per il tempo: riceviamo una messe di informazioni superiore alla capacità di selezione di ogni individuo.»
Lasciamolo parlare ancora: «La dittatura cercava di utilizzare la memoria, impedendola. Oggi avviene qualcosa di diverso: si crea una sorta di saturazione dell’informazione e si devono fare i conti con la memoria del computer che è minacciosa.»
Perché?
Il saggio Todorov continua: «Il computer possiede solo informazioni stoccate.»
Proseguendo: «La memoria dovrebbe essere sempre ‘scelta a gerarchia’ e non accumulo, perciò quella del computer non merita il nome di memoria.»
Perché?
«La memoria umana elimina il novanta per cento di ciò che riceve, lo organizza, sceglie.» Continuando: «Che significato potrà mai avere la storia del nostro Paese se, schiacciando un bottone, ci sfileranno davanti agli occhi migliaia di foto, date storiche o altre cose, senza distinzione tra gli argomenti decisivi e quelli che non lo sono?»
E allora?
Ecco perché anche questa merita di chiamarsi dittatura: è di altra natura ma il risultato è identico a quello prodotto dall’assenza di ogni interpretazione. Rischiamo di diventare ciechi e ignoranti.» (1)
Renato Pigliacampo
(1) Cfr T. Todorov «La memoria ci seppellirà» in Corriere della sera del 23 aprile 1996, p. 39

INTERVISTA AL POETA MESSICANO JOSE’ ANGEL LEYVA: «ALLA FINE SI DIVENTA CIO’ CHE SI SCRIVE… »

Domenica, Febbraio 9th, 2014

Informazione. Da Avvenire 4 febbraio 2014, pag. 21

Josè Angel Leyva, nato a Durango, in Messico, è considerato il maggior poeta del suo paese e del mondo ispanoamericano. Laureato in medicina a Durango, ha  subito affiancato alla professione di medico un’intensa attività letteraria. Estrapoliamo, da una  lunga intervista a Roberto Mussapi, poeta, collaboratore  di  AVVENIRE, le risposte più  significative.

Perché la poesia è necessaria?

«L’uomo è linguaggio, la poesia è linguaggio, se uno manca l’altro non esiste. La poesia nomina realtà possibili  dalla prospettiva dell’impossibilità. I nomi di ciò che deve accadere hanno luogo solo nella poesia. Senza poesia non c’è memoria del sentimento, un futuro per la ragione.»

C’è una relazione tra poesia e speranza?

«Il destino dell’uomo è la caducità, la morte. Però la poesia ci insegna forgiare quella memoria nella quale l’uomo si proietta fra i vivi, nelle nuove generazioni, per dare senso e  dignità alla propria esistenza, al suo passaggio sulla terra. La poesia è un atto d’amore totale. Questa è la sua ragione.»

La poesia può contribuire a una rinascita dell’uomo?

«La poesia è il meglio dell’uomo, ma ciò non significa che i poeti siano i migliori esseri umani. Come  affermano i poeti mistici, la poesia è un dono e non tutti coloro che lo possiedono lo meritano.»

C’è una relazione, secondo lei, fra la sfera della poesia e quella del sacro?

«Non vedo una natura religiosa nella poesia, ma una presenza di misticismo, di spiritualità. I poeti autentici sono inevitabilmente spirituali, anche se solo nel momento dell’ideazione.»

Ma interrogano l’infinito…

«Sì. Nel mio caso creare immagini piuttosto che metafore. Immagini, per esempio, che lo scienziato di astrologia, Stephen Hawking, trasmette riguardo al tempo, quando ci fa capire che una stella morta migliaia di milioni d’anni fa giunge a noi come una luce appena nata. Questa è la parte spettacolare della finitudine umana, ossia la  coscienza di qualcosa che è occorso nel passato cosmico, mentre lo spazio e il tempo che noi viviamo sono davvero una cosa insignificante. Però in questo istante luminoso che è la vita, filtra la conoscenza dell’inafferrabile, dell’inaccessibile. Per me questo è il fenomeno del sogno, dell’intrasogno. In questo senso la vita è una successione di sogni, e ogni volta che sogniamo viviamo altri universi.»

L’universo del sogno? Lei ha parlato di “nostalgia dei sogni”.

«Io sono intriso di nostalgia dei sogni. Ci sono cose che ho sognato e che ho vissuto, il sogno è anche evocazione necessaria  del passato. Ma no un mero rivolgersi al passato, no, è l’attualizzazione delle cose non appercepite: non di quelle irrimediabili, ma dei loro fantasmi.»

Ha riportato in epigrafe a un suo libro il detto di Pessoa, “Non dormo, intrasogno” (…)

«E’ vero, nel mio libro Entrusuenos inserisco giustamente un’epigrafe di Pessoa che risponde alla domanda: “Non dormo, intrasogno”. E più avanti riprendo altre sue righe allucinanti: “Spesso il sogno ha grandi funzioni di cinema”. Non c’è niente come il cinema che assomigli ai sogni, alla vita, al viaggio. Forse adesso lo sostituirà la realtà virtuale, più vicina, alla sua natura, alla simultaneità con i sogni.»

Romeo confonde il sonno di Giulietta con la morte, e si toglie la vita, mentre lei sta dormendo. Nella “£Bella addormentata nel bosco”, il cartoon di Walt Disney, il principe non crede che Aurora sia morta, anche se risulta tale, la bacia ugualmente, lei si desta: ciò che poteva essere morte, con un bacio si rivela sonno. La morte…

«La concezione della morte cambia con l’età. Da ragazzo non la senti, hai una percezione narcisista dell’assenza. Col passare gli anni comprendi il valore del tempo, necessario per studiare, lavorare, amare… Qui nasce la cognizione del tempo e, quindi, della morte, della fine del tuo tempo. Più sei attivo e creativo, più la morte è un problema. Ma nel mio caso non si è verificato soltanto questo passaggio che credo di ogni uomo: per me il rapporto con la morte è stato molto legato alla percezione che io avevo del dolore quando ero studente in medicina e poi medico, perché si trattava del dolore degli altri, non del mio dolore. A volte la morte degli altri, la loro morte esistenziale, o la morte di una parte della tua vita, diciamo psicologica, ti apre la strada, altre volte ti seppellisce intero (…). La vita e la morte esistono in un rapporto dialettico.»

SUPERARE L’IMPASSE LOTTANDO CONTRO L’IGNORANZA PER ESSERE SE STESSI!

Lunedì, Febbraio 3rd, 2014

lunedì 3 febbraio 2014

Nel Nuovo Testamento si parla dello «spirito muto», ovvero di “alalos”. Padre Vicenzo Di Blasio, noto studioso  sui sordi  nel periodo dell’Antichità, ci fa sapere  che la parola  greca  alalos è formata dalla “a” privativa e dal verbo laléo, (parlo), di cui sortisce  appunto «alalos» che sta ad  indicare “colui che non parla”.
Ma tutti  sanno, a meno che non siano  kofos (vuoti), che si può  comunicare senza per forza  utilizzare la loquela.  Senza  seguire i tanti studiosi  che hanno trattato la  comunicazione senza esprimersi a voce, facciamo un salto  con psicologi moderni, in primis, H. G. Furth, di formazione  statunitense, il quale  è stato il  primo a diffondere l’attenzione sull’intelligenza dei sordi, col libro  Pensiero senza  linguaggio. Implicazioni psicologiche della sordità, Armando editore,   (prima edizione in Italia 1971!), seguirono molte riedizioni e  ristampe.

Di fatto la  ricerca ci conferma che il linguaggio si sviluppa anche senza la  peculiarità del consueto canale  sonoro-acustico.. Qui  s’apre un gran dibattito. Con eccellenze  e  dispute e le relative diatribe fra filosofi del linguaggio e  linguisti puri dalla metà se secolo scorso ad oggi. Mettendo punti fermi  sulla “lingua” e  sul “linguaggio”.  Molti sordi, studiosi  della  LIS, la lingua italiani dei segni, fanno fatica – se non possiedono seri studi di base  di autori da  Chomsky a Grosjean, da Stokoe al nostro De Mauro, da  Piaget a  Sapir e tanti altri, senza  scordare   (de) Saussure col suo Corso di linguistica generale – ad approfondire, con un’attenta analisi critica e comparativa (e ovviamente  grammaticale) la lingua che si evolve e memorizza per  via del canale visuomanuale da  quella che  si fonda  sul canale  sonoro-acustico.

Oggi non si studia più, salvo rari casi di specialisti, il pensiero dei sordi.  È pur vero che  si è tentato, in questi sei lustri, dall’accoglienza (cfr legge 517/1977) dei sordi nella  scuola pubblica, di mascherare il termine «sordomuto», sino all’approvazione della legge 20 febbraio 2006, n. 95 che, giustamente, ha imposto che  fosse  abolito il vecchio  termine a favore di «sordo» in tutte le istituzioni burocratiche  che  trattassero i diritti dei sordi. Letteralmente ci fu un salto enorme (e  tante contraddizioni, cfr Renato Pigliacampo, Parole nel movimento. Psicolinguistica del sordo, Armando, 2009) dal  termine sordomuto (periodo del Congresso di Milano del 1880, guidato da Mons. Giulio Tarra, che  imponeva di «insegnare la parola con la parola»  (ma nelle  sue  scuole c’erano ancora le effigi  specificanti “Istituto per Sordomuti”  e all’attuale, come  detto “sordo”. Ma  l’evoluzione del mutamento della parola continua   facendo  supporre  che  avviene perché -  da  una  parte non si intende macchiare la famiglia dall’altra per rivalutare molte professioni allo scopo che, ad ognuno,  sia offerto uno spazio operativo e quindi occupazionale.
La  sordità  è  diventata terra promessa  come una  volta  i nostri emigranti speravano  di trovare lavoro nelle estese terre  argentine  o  in Brasile per sopravvivere alla fame.
Più che mai è urgente un settore statale, che potrebbe  essere  un ente parastatale, come  era  una volta l’ENS, perché metta fine all’ambiguità e alle disgrazie dei sordi siano adulti che in età evolutiva.
Interverremo ancora (sulle  tematiche).
Renato Pigliacampo