Archive for Luglio, 2006

Luoghi comuni di taluni docenti di sostegno

Domenica, Luglio 30th, 2006

«Eh! a che serve apprendere la lingua dei segni?». «Il mio allievo mi capisce: e lo capisco». Sono luoghi comuni di tanti cosiddetti docenti di sostegno nelle interrelazioni con i colleghi e i familiari dello studente sordo frequentante la scuola secondaria di primo e/o secondo grado. Non riflettono abbastanza sul processo d’apprendimento e la memorizzazione dei contenuti perché, nei corsi di formazione e di specializzazione, nessuno ha parlato loro di questo. Alla fine si riducono a presentare la didattica allo stesso modo dello studente con normalità sensoriale. I docenti possono essere considerati ammaestratori che prendono la via del canale auditivo, il verbum per antonomasia, senza che ciò abbia la doviziosità, l’esperienza e la completezza fondata sull’intelligibile ascolto costruttivo come avviene nella domanda/risposta caratterizzante il processo di apprendimento dello studente udente. Pertanto il nostro allievo sordo dovrà cavarsela per via visiva (labiolettura). La maggior parte dei docenti chiama questo operare «il metodo orale».

Non siamo «sulla dritta via».

La verità è un’altra: insegnare ai sordi e/o agli audiolesi di nascita o divenutili in età evolutiva impone al docente di studiare molto, con l’intenzione di affermare che deve avere conoscenze di base dapprima su discipline pedagogiche e psicologiche, poi sul particolare specifico e metodologico del disabile sensoriale d’udito.

Nel nostro Paese (estate 2006) questa preparazione è assente. Se ci adoperassimo meglio alla soluzione del problema, è certo che a giovarsene sarà l’attività didattica per gli scolari normodotati. Chiaro che sorge un dubbio: la Scuola ha un corpus docens all’altezza di saper insegnare, non dico ai sordi, ma agli studenti in genere?

Mi rendo conto che la definizione «saper insegnare» solleverà un vespaio di discussioni. Noi sordi ci adoperiamo negli ultimi anni a suggerire soluzioni, più volte esposte nel tavolo del Gruppo di lavoro per l’integrazione degli handicappati operante presso il MIUR centrale. Abbiamo suggerito che i docenti per la scuola secondaria - a stipendio d’accesso o valutando determinati crediti formativi - nei primi due anni della professione affianchino i docenti ritenuti esperti perché possano esercitarsi sulla programmazione didattica della loro disciplina, di cui hanno l’abilitazione (generica) per l’insegnamento. Se non sblocchiamo questo giro vizioso di un’istruzione approssimativa del sordo e/o dell’audioleso, egli finirà per essere ‘assistito’ da chi gli è dintorno che resta (sempre) un operatore con scarsa e/o nulla professionalità.

Il metodo orale non è un metodo didattico

Venerdì, Luglio 14th, 2006

Mi rendo conto che sono noioso, ma insisto e mi “spendo” ancora sul metodo orale perché - comprendendo che non è un metodo didattico - ci impegneremo tutti per una didattica per i reali bisogni fondati sulla percezione visuocinetica.

Gli insegnanti sono fondamentali per il sordo. L’ho scritto in molti libri e saggi (cfr. Scuola di Silenzio, Lettera ad una Ministro (e dintorni), Armando, Roma 2005), annunciato nei tanti convegni nazionali e internazionali in cui sono relatore perché, senza una buona istruzione, il sordo resta «handicappato», svantaggiato. Se è istruito bene la disabilità sensoriale diviene risorsa stimolando la visione dell’ambiente, di persone e cose: costruzione positiva della persona.

Quando ho superato la ritrosia del rifiuto della lingua dei segni, frequentando un corso di LIS, ho capito intrinsecamente gli Idilli di Leopardi, mio concittaddino. Nel momento in cui traducevo a segni i versi tutto il mio corpo dialogava con la natura circostante, revocata dal poeta: il colle dell’Infinito diventava strumento per spiccare il volo verso i “monti azzurri”; il Passero solitario lo scorgevi “sulla  vetta della torre antica”, più romito che mai; la donzelletta la vedevi sul serio venire dalla campagna “con il suo fascio d’erba in mano e un mazzolin di rose e di viole”; Silvia la percepivi nella realtà sinestesica come Giacomo Leopardi dal “paterno ostello” la ascoltava e vedeva (…). Sono esperienze fondamentali che un docente specializzato deve conoscere per saper insegnare.

Io non sono incavolato con i docenti specializzati, solo di nome, per lo più sono rimasti “docenti di sostegno”, “samaritani”, “polivalenti”, buoni per tutti gli alunni e studenti di  diverse disabilità e problematiche d’apprendimento. Solo il nostro Paese a tutt’oggi (estate 2006) non riconosce ai docenti realmente specializzati una professionalità didattica sul/del settore specifico. Di solito si lavora o si pretende d’inserire il soggetto sordo nella classe comune per renderlo «come gli altri coetanei»; considerarlo normale non significa che non incontri difficoltà di relazione e d’apprendimento, vuol dire, al contrario, sviare i suoi bisogni specifici perché è proprio l’invenzione di una didattica, la costruzione di un appropriato ambiente formativo e apprenditivo a far sì che i disabili sensoriali d’udito (e non solo essi) imparino a crescere culturalmente. La questione perciò non è la diatriba sui metodi d’istruire i sordi: è la conoscenza dei processi mentali, l’essere diversamente abili nel pensiero creativo.

Ogni bambino sordo ha una storia a sé: di riabilitazione e d’apprendimento. Studiandole con attenzione, il bravo docente specializzato, saprà programmare un lavoro specifico per acculturare e istruire lo studente e/o l’alunno che ha in carica; se non ci riesce significa che egli stesso non ha studiato abbastanza, non è filosofo.

Sei cattivo

Mercoledì, Luglio 12th, 2006

“Sei cattivo” ho letto sulle labbra di un coordinatore regionale dell’Italia dei Valori, perché non mi sono sottomesso ai “soliti giochetti”, cantandogli sul muso la disorganizzazione e le nulle scelte democratiche, le decisioni motu proprio compiute nella nostra regione negli ultimi tempi. Io ho concepito la filosofia di Antonio Di Pietro, dell’Italia dei Valori, sul fatto che una cosa, prima di giudicarla se “è bene” o se “è male”, la soppeso sulla bilancia della democrazia, se può essere utile alle persone.

Purtroppo anche alcuni nostri candidati alle elezioni politiche non erano utili per raggiungere la mèta dei valori. Scrivo “utili” e non “passati in giudicato” o con “problemi di giustizia”. A mio parere chi avanza una candidatura deve valere qualcosa, anche saper testimoniare per migliorare la società. L’uomo che non ha stimoli positivi finisce d’essere alieno alle proposte, di qualsiasi tipo. Antepone sempre se stesso, per la poltrona. A questo punto il fatto che sia giudicato cattivo per il coordinatore regionale, diviene un plauso. Infatti, mi batto per avere voce nel partito, una voce che è quella dei veri più deboli, che non sono mai ascoltati, nemmeno sono chiamati a risolvere i propri problemi. La mia “cattiveria” è solo ribellione per non essere sopraffatto dall’arroganza dei cosiddetti normali. Chi mi accusa cosa ha fatto o sta facendo per permettere la partecipazione del disabile nella struttura del partito? Troppi usano frasi scontate “è un valore aggiunto per il partito”, “appartiene alla società civile” eccetera. A che pro? Per la raccolta di consensi elettorali? Nooo! Se è così si tratta di sfruttamento delle associazioni dei disabili, dei protagonisti disabili (…).

La verità è che il vero cattivo è il mio coordinatore regionale perché pretende il consenso, da me e simili, senza mutare la mentalità degli iscritti e le strutture secondo i bisogni. Rimando al mittente l’accusa. Siamo di fronte ad un astuto che si serve dell’elettore prima allo scopo di approdare ad una carica istituzionale. Questa è la reale cattiveria: azione politica indegna in un partito come l’Italia dei Valori. Pertanto tutti coloro che gli dicono “signorsì” sono ometti, complici.

A MIO PADRE

Martedì, Luglio 11th, 2006

Mio padre fu un uomo di limitata cultura sui libri, ma di vaste conoscenze concrete di cose e persone. Partecipò alla 2a guerra mondiale col grado di caporal maggiore; lasciato solo a governare una combriccola di soldati nel momento in cui doveva imbarcarsi nel porto di Bari per Malta, venuto a sapere che Mussolini se la dava a gambe per l’imminente disfatta, decise che era bene “rompere le righe” e tornarsene, con mezzi di fortuna, a casa. Fino alla fine della guerra restò nascosto, «disertore» per i benpensanti. Ne parlo ne “Il Vergaro. Storia di contadini nella terra di Leopardi”, Moretti & Vitali, Bergamo 1999. La poesia che segue è un dono alla sua vita. Tra noi non c’è stato un colloquio profondo di parole e frasi (forse lo frenava la mia disabilità sensoriale). Bastava però uno sguardo, un gesto (…). Mentre anch’io vado verso la sera - le generazioni se ne vanno una dopo l’altra, la prossima a lasciare sarà la mia - penso che a mio babbo potevo parlare di più, spiegargli il mio Silenzio perché anch’egli lo accettase. Forse non sono stato a sufficienza figlio e psicologo (…).

Non sono altro che te, padre
nello sguardo vivace, nel lampo di luce
nel ricordo di quella contrada
dove mi generasti (confermano i mesi
nel Natale dell’anno d’infanzia della Repubblica).
Sei andato ora nel luogo dei più.
Effluiva primavera il 10 aprile 2002;
t’incamminavi nel terzo millennio.
Ormai ignoravi i discorsi
dei potenti della terra dicevi:
«Hanno qualcosa d’artefatto.»
«Vero, babbo» rispondevo.
«Troppo denaro.» Pausa.
«Vero padre, vero» confermavo.
«Otri di superbia, venduti
nella stanza dei bottoni, per voti.»
Sono sagge valutazioni.
Siamo uguali padre nel giudicare
la politica, la vita, le rabbie.

(era allora che aprivamo ali
spaziando pensieri nell’idiomatico
linguaggio; odore di stallatico
m’insegnò che la fatica compensa
indurisce mano dilata il cuore)
Ora dormi: le mie grida dal Silenzio
non scavano pietra, ove è inciso alfa e omega.
Tu lineare al comando, burbero
su chi accumula denaro, sei icona
serena accanto ai compari
in terra consacrata nel paese di collina.
Spiace averti rattristato
col dramma di mia vita.
Ti risento vocione
condannare Mussolini, gli eguali
bramanti potere, io non spero salire
gradi politici. Non m’interessa sortire
dall’anonimato per consenso ai loro interessi.
Guerriero col cuore di fanciullo, padre
nelle notti, quando l’Adriatico
sposa tramonto annuncio
d’essere girovago per la citta’
dire alla gente «noi siamo comunita’
nell’identità di lingua e cultura».
Frasi lette nei libri di Sacks (1).
«Pur noi lo fummo là, ricordi?»
«Vero babbo, a Bagnolo (2) c’era solidarieta’
altro che il sottobanco di Berlusconi (3) a Previti (4).»
Si desta mio padre dall’avello
se gli parlo di politica dell’ultimo decennio.
«Solo ammiro l’uomo di Montenero (5)
figlio di genitore testato (6) su sodi e polpe (7).»
Gli avevo regalato il libro di Travaglio (8) su Di Pietro.
L’unico che ha letto da inizio a fine
oltre la Bibbia e la Divina di Dante.

Nel silente gelido marmo dormi
in questa collina di Montecassiano (9)
straziandomi il cuore con l’altro Silenzio
che tormenta l’anima tesa a sapere (…).
«Ti è manifesta la Verità?».
Non rispondi alla domanda di fondo.
Resto smarrito infiacchito nei pensieri.
M’allontano dal tuo cospetto quasi irato
per divenire volatile senza nido,
trottola incauta d’estremo osare
interrogandomi perché non (mi) annunci
la Verità l’Amore l’alto respiro di Dio?

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1) Neurologo e scrittore che nel libro “Vedere voci”, Adelphi, Milano 1998, dimostrò che i non udenti hanno cultura e lingua  fondate sulla percezione visiva.
2) Contrada di case sparse a nordest di Recanati dove erano mezzadrie di conti degli Azzoni Carradori e di altri latifondisti.
3) Già più volte capo di governo, pluriaccusato per vari reati.
4) Parlamentare, ministro e avvocato di fiducia di Berlusconi.
5) Montenero di Bisaccia, paese natale del magistrato Antonio Di Pietro, indagò sui parlamentari, ministri, imprenditori, segretari di partito, fenomeno illegale conosciuto come «Tangentopoli». Di Pietro era componente di un gruppo di magistrati (Gerardo D’Ambrosio, Davigo, Colombo, Ghitti, Borrelli, procuratore capo).
6) Forgiato dall’esperienza, dal vissuto.
7) Scarti di barbabietole lavorate negli zuccherifici, utilizzate come mangime per gli animali domestici.
8) Giornalista che ha documentato coi suoi scritti e ricerche le vicende giudiziarie di Berlusconi.
9) Paese di dodicimila abitanti a nordest di Macerata dove riposa il padre dell’autore.

da Renato Pigliacampo, L’albero di rami senza vento, (silloge inedita al luglio 2006) ŠŠŠ

Š

(1)

Sabato, Luglio 1st, 2006

«Sentire è diverso che ascoltare»
insegnava agli studenti di liceo.
S’accorse che tutti sentono e nessuno ascolta
La parola emerge oggetto
quando viene soppesata

La logopedista, di là della stanza,
programma ore di straordinario
per il bimbo sordo

da Renato Pigliacampo, Ascolta il mio silenzio, Edizioni Cantagalli, Siena, 1999.