Archive for Ottobre, 2007

Il coattismo verbale

Lunedì, Ottobre 22nd, 2007

Per alcuni secoli il coattismo verbale imposto ai sordi regnava sovrano negli istituti e nelle scuole; bloccando di fatto la ricerca sulla lingua dei segni, sulla conoscenza etimologica del segno. Perché conoscerne lo sviluppo è importante per la persona udente, satura com’è di ripetitività delle parole ascoltate. L’attenzione sulla percezione visiva delle cose e la riflessione sulle parole sono importantissime per stabilire un contatto con l’ambiente: entrare dentro la parola. Si è sparlato, di proprosito in negativo, sui «gesti». Generazioni di sordi «mimici» nei loro centri sociali, gesticolavano (o gesticolano) in modo frenetico sia  gli adulti negli incontri del tempo libero sia nell’attività ludica dei bambini esposti ai segni. Raramente c’è stato incoraggiamento delle loro perfomances dagli operatori sociosanitari o dagli insegnanti, ancora meno dalle famiglie. Spesso, invece, si sono avuti attori udenti, soprattutto di teatro, che utilizzavano i sordi per conoscere i segni, per trarme una «macchietta» originale per le apparizioni i televisione. Ancora oggi, sebbene i sordi più colti e i dirigenti della più importante associazione nazionale (ENS), propongono un’apertura alla conoscenza della lingua dei segni sia ai sordi che agli udenti, la maggior parte dei giovani sordi e i meno giovani non la conosce a sufficienza a livello teorico e grammaticale nei processi di sviluppo per saperla proporre a scuola, dibatterla scientificamente. Tuttavia un numero ristretto, ma agguerito, sta proponendo alla comunità lo studio di questa lingua. Stupisce, nel dibattito acceso dei convegni, notare come rispondono gli specialisti, in particolare otochirurghi e le prime logopediste chiamate ad operare negli enti locali o nelle AASSLL, indottrinate teoricamente e praticamente, presisposte «a far parlare i sordi». Costoro rispondono sempre allo stesso modo: i sordi non esistono, sono retaggio del passato quando non era possibile fruire di strumentazioni, di interventi logopedici su misura, specificandone gli invasivi attuali più costosi come l’impianto cocleare. Non hanno idea - questi cosiddetti esperti - del linguaggio se non che come entità oggettiva, medicalizzante. Mai soggetiva. Se lo fosse analizzerebbero la lingua dei segni linguaggio proprio del sordo, non «i gesti dei sordi» (sic), ma processo psicocognitivo e linguistico per appropriarsi di una comunicazione prorpia di accesso all’altro.

Succede che gli operatori della sanità in genere (logopediste, otochirurghi ecc.) portano i bambini e i ragazzi impiantati per confermare le loro teorie (sono stati condotti anche davanti al ministro della solidarietà, On. Ferrero, “colpevole” di portare avanti l’approvazione della lingua dei segni),  o recitano  disposizioni a tavolino, imposte da familiari e operatori che l’hanno cresciuti «oralisti». Potrei fare decine di esempi. Ne ho accennato in Lettera ad una MInistro (e dintorni), di un ragazzo sordo di «buona famiglia», sempre giustificato dalla madre quando, capitato in società o nel gruppo dei pari, esprimendosi con tonalità tipica di straniero, ella interveniva celere affermando soffriva di faringite o di altre infenzioni. Il ragazzo stesso era divenuto imbattibile nel mentire sulle cause della comprensione artefatta o confusa. Capitava spesso che dicesse, quando gli era impossibile decodificare le parole o le frasi per labiolettura, d’avere un fastidioso ronzio negli orecchi, di un’otite e così via. Il giovane diveniva uomo recitando la commedia per escludere la sordità. Nessuno nel parentado o esperto gli insegnava come affrontare la realtà d’essere sordo in una società di udenti idonea per la loro condizione. Mai abituato a contattare i simili o mettersi con loro in prima fila per accedere al diritto di partecipare attivamente alla costruzione di una società in cui fosse stata accettata la condizione di   sordo, tanto più opporsi ad un insegnante di scuola incapace, non solo a svolgere attività didattica secondo i bisogni ma nemmeno comunicargli semplici nozioni.

Prigionieri della loro menomazione sensoriale, sordi, dunque vinti.

La parola verbale

Martedì, Ottobre 16th, 2007

Quante volte ho letto, e ascoltato nel tempo della mia infanzia e fanciullezza uditiva, la parola! Quando si pensa alla «parola» si fa riferimento, per il 99%, alla parola verbale. Ma effettivamente che cos’è? Io la considero come vestire il segno di sonorità. Lo costatiamo nei bambini udenti. Ci vuole quasi un anno di vita per raggiungere l’autonomia di produrre tra le 12-20 parole. Ne comprendono molte di più, tuttavia l’apparato fonoarticolatorio non è ancora pronto perché il piccolo pronunci bene le parole. E’ sottomesso alle tappe di sviluppo del linguaggio: dai primi vocalizzi alla lallazione, dall’unione dei fonemi-sosia al morfema e via via verso l’appropriarsi della linguaggio sociale. Ciò che scrivo sono elementari informazioni psicolinguistiche che ogni studente di scienze della formazione conosce, per gli psicologi è routine ripetitiva.

Per secoli i sordi(muti) sono stati sollecitati a parlare a voce, cioè a divenire «altro». Sottomessi ad un comportamento improprio, non conosciuto direttamente. Gli educatori dei sordi compivano il massimo sforzo per far sì che i propri allievi ‘emettessero’ la favella. Il processo di demutizzazione faceva sì che fosse eliminata la mutezza. La scuola era chiamata a «dare la voce il più possibile normale»: e l’impegno si estendeva per tutto il ciclo scolastico. Talvolta gli anni, per la frequenza della stessa classe, venivano raddoppiati per dare, al docente,  il tempo necessario d’impostare l’articolazione delle parole. Ricordiamo che l’insegnante svolgeva, ai miei tempi, la doppia funzione di riabilitatore logopedico e docente di didattica. Ma i direttori delle Scuole, o gli Ispettori fermavano l’attenzione solo sulla capacità di parlare con i codici verbali piuttosto di indagare sull’apprendimento, sui concetti, dil pensiero. I sordi erano allenati allo psittacismo, un parlare a vuoto, nozionistico. «I gesti» e la «mimica», come erroneamente indicati, erano sottoposti all’ostracismo nelle aule scolastiche. Il metodo oralista dominava sovrano in ogni dove d’Italia. Nelle aule di molti Istituti regnava, sulla parete, lo sguardo di Mons. Giulio Tarra che, con autorità nel Congresso famosissimo del 1880 di Milano, aveva indotto i convegnisti a votare, senza indugi,  la sua mozione «d’insegnamento della parola con la parola» (v. Atti… ).  I docenti venivano selezionati per la maestrìa di “come si insegna la parola”, piuttosto per le conoscenze didattiche, o dei processi percettivi. Se ci riflettiamo e procediamo criticamente ci avvedremo che, i sordi, erano sottoposti al coattismo linguistico. Negli anni futuri della maturità, dopo aver studiato (e non solo letto, sic) all’Università i linguisti, approfondito i processi di linguaggio mi sono avveduto che i maestri di allora (e i miei insegnanti) erano terrorizzati l pensiero che ci lasciassero «senza favella», muti. L’ignoranza faceva sì che ci impedivano l’accesso alla reale funzione dell’ascolto: la nostra attitudine di sviluppare la lingua del vedere. Molti docenti credevano che il possesso della lingua vocale conducesse al trascendente, al ragionamento. Schiere di pedagogisti clinici, dall’antesignano Itard (v. Il ragazzo selvaggio dell’Avayron), si scervellano sulla lingua. Ogni generazione di docenti cosiddetti specializzati «inventavano» un metodo per «far parlare i sordi», «per insegnare la lingua normale (sic!) a sordi». Sempre a battere lo stesso tasto. Sempre i bambini sordi  sottoposti allo stress della parola. Nessuno si interrogava su qual è il compito di un educatore? Io penso sia mettere il discente nella contentezza di vivere. Ci volle il  francese Henry Laborit, scienziato di fama mondiale, nonno della sorda Michelle, autrice del libro autobiografico Il grido del gabbiano che, con  la sua eutologia, dimostrò che la vera normalità consiste nel «star bene nella propria pelle». Questo l’ho compreso quando, componente della Federazione Mondiale dei Sordi, girando il mondo mi accorgevo che nessun sordo era infelice, emarginato, viveva bene nella propria pelle purché fruisse delle strutture, del personale esperto per il superamento delle barriere di comunicazione. Bisogna fare attenzione e chiarire: non è che i sordi rifiutano la parola verbale, la vogliono apprendere - dico apprendere perché è proprio così, il procedimento di acquisizione non avviene come nel bambino udente che è «vestito dalla lingua vocale» senza sforzo, nell’interrelazione acustica-verbale con l’ambiente. Il sordo deve impegnarsi nel processo d’apprendimento, vale a dire «imparare». E’ uno sforzo cognitivo complesso. Se non c’è tale capacità, la minima possibilità di parlare a voce va dispersa. Gli «oralisti» non ci riflettono. Chiedono al sordo di diventare come loro, ma lo sforzo è sempre unilaterale; al contrario  pochissimi udenti sono in grado di entrare nella doviziosità della lingua visuomanuale. Certo, gli interpreti di lingua dei segni sono dentro il sistema linguistico dei sordi, ma raramente nella quoridiana comunicazione, a meno che non abbiano familiari o partner sordi, la utilizzano. Molti miei compagni sprofondavano nell’abulia, nella depressione, si caricavano di rabbia quando erano bloccati proprio in quel canale tramite cui avrebbero manifestato le loro potenzialità emotive e intellettive. Non riconosciuta la lingua dei segni - se non che quando erano utilizzati  anche i codici verbali della maggioranza - i sordi finivano cancellati come persone che comunicavano. La loro intenzione d’essere soggetti con la lingua dei segni, lingua che doveva essere favorita e insegnata “proprio come una lingua”, e non avveniva, annullava anche la loro volontà d’apprendere la lingua verbale. Eccoli senza nessuna lingua: ignorati nell’invisibile disabilità.

ASL, American Sign Language

Venerdì, Ottobre 12th, 2007

Ho scritto che i sordi statunitensi sono riusciti a dimostrare, alla comunità di maggioranza, che la lingua utilizzata, l’ASL (American Sign Language), caratterizza la loro identità linguistica. Non c’è nulla di strano in questo. Infatti è dimostrato (v. William Stokoe) che è una lingua con tutte le potenzialità - di più - di una lingua. Dunque ciascuno di noi è libero - in un Paese civile e democratico - di utilizzare la lingua che gli conviene e/o accettata dall’interlocutore. Tuttavia è bene soppesare le parole per non cadere nella demagogia e nel pressappochismo. Come succede spesso a chi non ama sacrificarsi nella ricerca o comparare gli studi scientifici, o chi si esercita sull’esibizionismo (…). C’è più di un sordo italiano che gesticola vivacemente «LIS! LIS! LIS!», o «la mia identità linguistica», senza aver mai aperto un libro sul linguaggio, studiato le regole della lingua di maggioranza, la grammatica. Ripetono i segni alla carlona; si interpretano o veramente «comunicano»? E’ noto che se dico «compagno», letteralmente è riferito a «cum panis», mangiare lo sesso pane, sperimentare la stessa condizione esistenziale. Comunicare vuol dire mettere insieme gli stessi codici (o utilizzarli) seguendo delle regole, che dobbiamo conoscere perché la comunicazione sia efficace. Possiamo comunicare anche «per sentito dire»: il senso dell’udito, ascoltando, ci permette di appropriarci del sistema più idoneo per comunicare con la “comunità di appartenenza”. Il bambino udente non studia la grammatica, ode e si esprime in modo più idoneo per farsi capire dagli individui. Utilizza i segni verbali (le parole) adeguate al proprio sviluppo cognitivo. Il bambino sordo non è stimolato a segnare, ripeto a iosa, perché i genitori gli impongono i codici verbali. Ebbene sappiamo che nessun sordo di media cultura e intelligenza respinge la lingua verbale, ma deve essere proposta secondo un programma appropriato, di facile accesso nei processi percettivi psicocognitivi. Abbiamo documentato (v. R. Pigliacampo, Parole nel movimento. Psicolinguistica del sordo, Armando, Roma 2007), che il bambino sordo deve essere esposto alla comunicazione segnica, vale a dire al «bagno segnico». Come J. Piaget sollecitava, per il bambino udente, il «bagno sonoro».  Sembra facile imparare a parlare per il bambino sordo o con problemi d’ascolto, ma la questione si complica quando, i familiari, non hanno validi motivi per affrontare la demutizzazione che, nel bambino udente, è solo un aprirsi alla parola della comunità di maggioranza, uscire dal bozzolo della mutezza per iniziare a produrre la parola per esprimere emozioni e idee. Il bambino udente non inizia lo sviluppo linguistico e psicologico dal nulla. Non è tabula rasa. Il sistema neurale delle aree cerebrali deputate alle specifiche funzioni, già prima dalla nascita, ha ricevuto stimoli sonoroverbali dall’esterno. Il bambino riconosce la voce della madre, e discrimina suoni o rumori. Dopo la nascita inizia l’iter dello sviluppo del linguaggio col supporto della tradizione linguistica e culturale ambientale. I bambini durante la crescita hanno l’opportunità di sperimentare ciò che ha scritto la generazione precedente nella lingua della società di appartenenza. Ogni nuova generazione può conoscere la generazione precedente leggendo «i segni» che la stessa ha lasciato attraverso la scritturasia o direttamente a voce. Le favole raccontate al babbo dalla nonna possono rivivere. oggi. nel racconto della mamma al figlio. Vero che mutano i processi psicologici, talvolta anche l’interpretazione per cambiamento di cultura, ma i «segni» restano. Per questa mancanza, taluni psicologi, ci ricordano che i segni visuomanuali sono sfuggenti, aleatori perché (almeno sino ad oggi) non hanno un riscontro scritto: il tutto è fondato sulla visività, è scrivere nell’aria, poi il segno sparisce(…). E’ bene consolarci che se studiamo la motilità dei sordi, il loro ideare il segno, i procedimenti dei parametri, cioè la grammatica della LdS ci avvedremo che il «segno» diviene (è) fondamentale per relazionare con gli altri, anche con chi non sa segnare. Perché crea la base della lingua verbale, aprendo una finestra sulla conoscenza semantica di tutte le lingue. Non è un caso che mi sia stato meno difficile studiare il latino dopo aver appreso la lingua dei segni. E così la lingua scritta e parlata della mia Patria. Il linguista Tullio De Mauro, già ministro della P.I., ha sempre sostenuto che la LdS apre nuove possibilità di conoscenza e interpretazione al bambino udente. Infatti troppi udenti, nel parlare, riempionoi i vuoti della narrazione… con le parole, parole vuote, kofos. Dobbiamo, invece, far sì che le parole superflue siano rivisitate col segno vuomanuale per verificarne il contenuto: e riconsiderate nella globalità del significato si avrà una migliore interrelazione. A questo punto il problema non è più parlare o no con la parola verbale; il principio è che la stessa sia analizzata nel segno visuomanuale per migliorare la comunicazione.

Il Partito della Schiavitù

Lunedì, Ottobre 8th, 2007

La sign.ra Brambilla si è «prostituita» alle smanie del proprietario di Forza Italia. Ella lo supporta ed ha anche la faccia tosta di dichiarare a decine di quotidiani che «Nessun nuovo partito, Berlusconi pensa al futuro dei moderati… ». Se avevamo il dubbio, è stato rimosso con le ultime astuzie, tipiche di Berlusconi. Occorre dargli atto che è geniale nel saper interpretare le “voglie” del popolo che si pascia alle sue fonti (televisive). Ho affermato che la «signora in rosso (di crine)» si è abbassata alla volontà del leader, il quale si contraddice a più non posso: da una parte persegue l’unione della CdL per un bipolarismo che pretende di cancellare i «piccoli partiti ricattatori e litigiosi», dall’altra lui stesso ne dà vita di nuovi; poi, solennemente, alzandosi in punta di piedi per pareggiare l’altezza della sua dama, dichiara: «Siamo tra il 2 e il 4%» riferendosi al neonato partito. Come all’inizio del suo scendere in politica, Berlusconi utilizza la gente come merce, giocattolo: e lo fa con i suoi spot, gli slogans senza il minimo  rispetto per l’intelligenza delle persone, per la democrazia (…).

A Silvio Berlusconi non interessa il progresso della società, s’impone con lusinghe mercemoniche soggiogando il gruppo osannante di seguaci politici di cui si circonda: e se qualcuno di loro ricama sulle sortite verbali, tanto meglio purché quanto è detto si espanda nella quotidiana chiacchiera medianica non risvegliando le amigdale del cervello! La seduzione del desiderio di apparire poi, ricercato da ogni politico nelle televisioni del Cavaliere, finisce ogni volta per smontare il dibattito rispetto a tutti gli altri che credono di far politica o di saperla con etica e libertà democratica. Si può crederlo o no, Berlusconi offre il mezzo televisivo come il pascià offriva una concubina al capo degli oppositori, per poi tagliargli la testa. Non si accorgono, i politici che lo oppongono, che fanno il gioco di Sua Emittenza ogni volta che s’accostano alle sue tivù. Eccolo allora sfruttare il privilegio di dire tutto e il contrario di tutto perché ha mezzi economici, massmediologhi e lacché che smentiranno le sue parole o le amplificheranno secondo i casi.

Ci vorrebbe un nuovo Pier Paolo Pisolini per smascherare l’Imbroglio che ci portiamo appresso da quasi vent’anni, altro che il pur bravo Beppe Grillo col suo Vaff.! Il filosofo B. Russell alla domanda se esistono persone che sono sempre leader e altre che sono sempre seguaci, rispose: «Il carattere di alcune persone le porta sempre a comandare, e quello di altre sempre ad obbedire; tra questi  due estremi si pone la massa degli individui medi a cui piace comandare in certe situazioni, ma che in altre preferisce sottostare ad un leader.» Significa che sottostare ad un leader è farsi comandare, starsene a ruota del capo che, con i propri denari, fa star  bene il gruppo di seguaci o lacché. Berlusconi alias la Brambilla non ha fondato il PdL dove L è Libertà, bensì il PdS: la esse indica la Schiavitù della mente.

Filastrocca

Mercoledì, Ottobre 3rd, 2007

Talvolta nei giorni di pioggia,
quando il sole non furbizia con le nuvole
nel litorale della mia Porto
m’accorgo di sposare solitudine e
l’animo crocifisso a quella contrada
antica verace.

E tutte le rotte portano al Meridione.
Salpano le mavi dal porto d’Ancona,
dal porto dei miei sogni e amori,
dai silenzi di suoni e voci.
«Andiamo ad ascoltare?»

Ma resto qui, solo. E’ notte e
mentre attendo l’alba
tutto il mio paese ride.

Il gioco di poesia è terminato.

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da Renato Pigliacampo, Ascolta il mio silenzio, Edizioni Cantagalli, Siena 1999.

Elegia per un amore

Mercoledì, Ottobre 3rd, 2007

Scrivo parole semplici, chiare
perché tu capisca quest’amore.

Sulla spiaggia del mio Adriatico
le onde bagnano i miei piedi.

Rivedo le tue eburnee mani segnanti.
Timido ti domandavo «M’insegni?
Che vuoi dirmi col segno?».
Maliziosa di me ridevi.
Prendevi le mie mani e
portandole nell’esatto spazio del corpo
esaudivi il mio comunicare.

Il mio bene su di te investiva.

Ora sono solo infelice perso.

Oh quanto ti ho amato!
Dov’è il sogno d’amore?
Dov’è la fossetta del mento?
Mai più li esprimerò segnando.

Sono passato come uragano
nell’aurora della tua vita.

Quest’amore è giogo e condanna.
Arduo riprendere la lotta
per gli amici silenti.
Non scriverò più sulle ingiustizie
perché la più grande ingiuria
è compiuta su di me
nel non poterti amare.

(So che non mi hai lasciato.
L’avverso destino ci ha ferito.
La moralità che governa la mia vita
non può nasconderti che sono uomo legato
ad una promessa consacrata)

da Renato Pigliacampo, Ascolta il mio silenzio, Edizioni Cantagalli, Siena 1999.