Archive for Maggio, 2006

All’età di 102 anni ritornerò ad ascoltare

Mercoledì, Maggio 31st, 2006

Verrà il giorno in cui la lingua dei segni non sarà più utilizzata (o appresa) dai sordi perché essi non esisteranno più. La scienza ippocratica sradicherà la sordità. Col trascorrere gli anni stanno diminuendo i sordi nella fascia d’età 0-20. Ebbene, se non ci sono «sordi gravi», ce ne sono parecchi con deficit d’ascolto. Molti scolari e bambini trovano difficoltà nello interpretare le parole verbali. Gli psicologi e gli audiologi sono coscienti di questo problema. E’ pure  saturazione allo stimolo sonoro, ottundimento percettivo che lascia spazio a svariate interpretrazioni. A questi bambini consigliare la protesi acustica? I genitori entrano in ansia quando gli si parla del «coso» da inserire nel meato auditivo del figlio. Sùbito affermano che a scuola «capisce tutto», sebbene non gli è stato chiesto.  Certo, comprende attraverso la labiolettura, ma a scapito di uno stress che, alla lunga, piegherà il bambino al rifiuto dell’apprendimento.

Ho tenuto seminari in tutt’Italia sul didadattamento scolastico del sordo. Succede che la relazione con l’ambiente è limitante: non riesce ad organizzare il proprio Io. Con l’aumento del disagio finisce  per non accettarsi in ciò che è, sordo, perché gli è presentato un «modello udente», che sperimenta un processio percettivo differente. Ecco che sorgono difficoltà scolastiche: agitazione, instabilità, ripiegamento su di sé, sino alla difficoltà di relazionare con i coetanei manifestata con improvvise aggressioni senza motivo o chiusura. Forse la sordità grave sarà eliminata dalla scienza medica entro il 2050. Avrò 102 anni. Per questo devo volermi bene, sopravvivere sino allora col mio Silenzio per ritornare a riascoltare la sinfonia, l’onda del mare che s’infrange sugli scogli, la voce di un bambino, il fruscìo del vento sugli alberi, i richiami degli animali nella contrada Bagnolo di Recanati (…). Nell’attesa continuo ad arricchire il pensiero attraverso la percezione visiva. Sono triste pensando a quella madre che non faccia altrettanto col figlio di Silenzio rinviando con le parole: «Impara a parlare a voce»; «I gesti li imparerai dopo!».

Riconoscere con legge la lingua italiana dei segni

Mercoledì, Maggio 24th, 2006

Da parecchio tempo mi sono accorto che parliamo di LIS (Lingua Italiana dei Segni), ma non riusciamo a convincere la comunità scientifica, almeno quella non addetta ai lavori, o i parlamentari italiani - perché la riconoscano con legge - che abbiamo una lingua e che la stessa sia appresa dai docenti specializzati che insegnano ai sordi.

Le interpreti di LIS (mi domando se è precisa la definizione)ho verificato registrando parecchie apparizioni in televisione, che le traduttrici  dei telegiornali di mediaset, che sono tutte milanesi o lombarde, utilizzano molti segni differenti rispetto le colleghe della RAI, che sono per lo più romane o del centro sud. Ecco che ci troviamo a dichiarare che in Italia esiste un «dialetto segnico» piuttosto che la «lingua italiana dei segni». La lingua visuomanuale utilizzata dai sordi deve essere ancora unificata. Oh, non deve sorprendere perché sappiamo che il dialetto fiorentino impiegò secoli per essere considerato lingua italiana (l’italiano), sebbene il veicolo di diffusione fosse la Divina Commedia di Dante Alighieri!

E’ accertato che i nostri interpreti di LIS sono generici. Siamo carenti di esperti per tradurre le discipline quali le scienze sociologiche, filosofiche, psicologiche, economiche, mediche eccetera. Di sicuro la colpa non può essere attribuita agli interpreti. Dobbiamo essere noi a iderare i segni appropriati secondo le teorie studiate, le definizioni corrispondenti al contenuto che si vuole “fare intendere”. Sono sempre le persone a creare la lingua che loro stesse utilizzeranno: «comunicare» è mettere insieme, nel nostro caso sono messi insieme codici. Sono convinto che spetta a noi protagonisti diventare lingua nel momento in cui la utilizziamo per/nei i bisogni. Gli studenti sordi frequentanti le nostre Università fruiscono del servizio di interpretariato (come stabilisce la legge), ma non per questo possiamo dire che le operatrici traducono la lingua italiana del docente che  sta utilzzando parole complesse in altrettanti segni visuomanuali complessi o codificati conosciuti dallo studente segnante. Qui entrano in gioco i processi mnemonici diversificati (…). Infine ricordiamo che il docente prepara la lezione utilizzando la lingua italiana, ripeto,  focalizzando il tutto su una spiegazione domanda-risposta, di cui ha esperienza diretta nell’apprendimento. Perché è udente e perché ha appreso seguendo la stessa modalità del discente. Vero che il compito del docente è semplificare i contenuti. La sua presenza didattica ha l’obiettivo: spiegare, semplificare, approfondire. E’ tutto così semplice per lo studente e il docente udenti! Per il sordo è un problema, anzi il vero problema dell’apprendimento, al quale - a mio giudizio - pochissimi lavorano per favorire  il sordo nello appropriarsi dell’alta cultura.

Sono convinto che nei prossimi anni, gruppi di psicologi, sociologi, antropologi, economisti e così via sordi potranno comunicare segni conformi alla loro disciplina, appropriati ai contenuti della loro professione. Sono segni che loro stessi dovranno fornire alle interpreti di LdS che sapranno tradurre le lezioni universitarie e i masters di aggiornamento con efficacia. Non scorderò mai le parole del filosofo udente che, dopo avere ascoltato la relazione di un collega sordo,  professore alla “Gallaudet University” negli Usa, unica Università al mondo dove i professori sono capaci di utilizzare la lingua dei segni  (benissimo tradotto a voce per gli udenti presenti da una capacissima interprete filosofa) sulla Metafisica di Aristotele, disse: «In tanti anni di studio e ricerca non sono riuscito a vedere in Aristotele ciò che ha considerato il collega sordo.»

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Cercare le labbra dell’altro

Martedì, Maggio 23rd, 2006

Spesso ho notato che il sordo osserva, innanzitutto, dell’altro/a la bocca. Chi ode  entra il relazione con l’interlocutore in tanti modi, che possono essere: una battuta nel momento opportuno dell’interrelazione, un fischio più o meno forte, un soffio più o meno diligentemente significativo, una frase o parola che si intromette nella domanda e/o risposta. Tutto ciò è fondato sull’ascolto, sempre che vogliamo ascoltare! Chiaro che l’udente  puo’ guardarsi le scarpe o avere le spalle girate nel momento in cui l’altro gli parla senza che per questo precipiti il mondo (…). Le onde sonore emesse dal parlante sono riprese dal padiglione delle orecchie per convogliarle nel meato uditivo. Tutto il processo del parlare è cosi’ semplice che solo quando analizziamo la genesi e la struttura della formazione della aprola ne comprendiamo la magnificenza sopratutto per la sua semplicità. Il Signore ha compiuto il miracolo massimo non nel creare l’uomo - sebbene in sé è un prodigio -  ma nel fatto d’avere reso semplice e accessibile a tutti la meraviglia della aprola, della vista, dell’amore sessuale, del cammino, dell’abbraccio, del sorriso (…). Eppure noi rendiamo complicato cio’ che è semplicissimo. La percezione visiva obbliga il sordo a superare la pigrizia, presente in quasi tutti gli udenti nel sentire. Il genio è come i sordi: riesce a vedere cose che alla maggior parte delle persone sfugge. Chi sperimenta il Silenzio cerca le labbra dell’interlocutore per labioleggere. E’ un’azione ativa, Jean Guitton la chiama «ammirazione attiva», consigliandola a ogni studioso. Il filosofo cattolico afferma: «Creare sempre in sé dei centri e dei focolai di interrogazione, porsi dei problemi, lanciare sul soggetto (…) dei presentimenti, delle attese», aggiungendo l’autore dell‘Arte nuova di pensare « (…) chi non sa che cosa cerca, non sa che cosa trova». Il Silenzio implica pertanto osservare , al contrario dell’udente che, della vista, si serve solo per guardare.

Di labbra io me ne intendo. Conosco tanti sordi capacissimi nel labioleggere. Molti udenti non si accorgono li’ per li’ del deficit udirivo di colui col quale parlano. Parecchi genitori “puntano” su questo per nascondere ai parenti, agli amici la sordita’. Dimenticano pero’ gli Esperti - e gli ansiosi genitori - che non tutte le labbra dell’interlocutore possono essere lette. La prima interrogazione che dovrebbe essere posta è: sono idonee e bene strutturate le labbra di chi parla al sordo? Vero che l’addestramento ai movimenti labiobuccali permette alla percezione visiva di evolvere dal semplice sguardo e/o stimolo alla conoscenza intelligibile e d’interpretazione dei movimenti labiobuccali che originano la parola. Ma se il parlante non è educato a comunicare col sordo non c’è verso che sia capito, ho capito male. Infine c’è da considerare il concetto semiotico che, al labiolettore, spesso rimane oscuro. In particolare per i bambini del Silenzio. Per chi ode il significato che la parola assume nella mente del bambino è lo stesso che ha nel linguaggio degli adulti. I bambini udenti si calano, diciamo cosi’, nel linguaggio sociale, familiare. Ogni madre lo sperimenta nel prim stadio piagetiano dello sviluppo senso-motorio, il linguaggio maternale.

(…) Allora l’udente parla e parla; il sordo non capisce e si innervosisce, ugualmente si irrita chi gli parla. Due tenzoni si trovano di fronte, si sono originate, proprio la’ dove, parlare, doveva essere una liberazione e scambio di pareri. Finiamo in un giro vizioso. Non ci si briga più a chi parliamo, domandarsi se si possiedono labbra idonee per essere lette o se articoliamo bene i fonemi, o alcuni degli stessi; se ci si “mangia le parole”; se le labbra sono visibili agli occhi del sordo; se l’espressività accompagna il contenuto. L’esperienza ci dice che l’8=% delle persone ha un apparato labiale e boccale che rende impossibile l’intelligibilita’ delle parole emesse: o perché, ripeto, sono labbra malformate, o perché - negli uomini - sono coperte dai baffi, o per altri motivi connessi alla caratteristica fisiognomica di colui che parla.

Incapacità di parlare al sordo

Venerdì, Maggio 19th, 2006

Sono pochissimi coloro che, rivolgendosi al sordo, hanno idea «come parlare», non mi riferisco alla modalità di comunicazione (articolazione della parola, attenzione ai vari accorgimenti: illuminazione delle labbra e del volto di chi parla, velocità del parlare, ecc.), ma faccio riferimento all’intelligibilità del parlare, il mondo del percepibile (del Silenzio). L’udente pensa verbalmente, si accomoda la parola nel momento che la pronuncia, sa giocare la carta del parlare allorché ascolta/ode l’interlocutore. Ho studiato i processi di apprendimento visivo-cinestetico. E’ arduo che la persona udente possa pensare visivamente, sebbene le relazioni di oggi sono sovrabbondanti di iconicità. Tra  i due processi, di percezione acustica e visiva, c’è una barriera di ignoranza. Il sordo è convinto che «l’udente», come lo indica, non lo capisca. Idea più accentuata nei sordi  bilingui segnanti, cioè che hanno  strutturato la lingua dei segni e utilizzano la lingua verbale come seconda lingua. Costoro affermano di possedere una propria identità linguistica e culturale. Ammettono: «Noi non siamo handicappati» (sic). Di fatto amano e vivono le interrelazioni secondo i processi psicocognitivi e linguistici visuo-cinestetici. Sono semplicemente persone disabili della/nella modalità percettiva acustica-verbale. Se in un’assemblea o convegno è presente una buona interprete di LIS (nel nostro caso italiano) possono essere attivi secondo le loro capacità culturali e professionali. I contenuti sono appresi su un canale differente. Confesso di concordare con questa filosofia. I sordi possono essere ritenuti di viivere nel Pianeta del Silenzio lungo una direttiva di cultura e di lingua differenti (per natura). Il discorso, lo comprendo, si sposta sull’antropologia. Anche questo da me  è stato approfondito. Non abbastanza come Amir Zuccalà, uno degli antropologi udenti italian che studiano i sordi (v. a cura di Amir Zuccalà, Cultura del gesto e cultura della parola. Viaggio antropologico nel mondo dei sordi,  Meltemi, Roma 1997). Qualcuno idenifica ciò in una «cultura sorda», che è - notate - tout court proprio un modo di vivere, di pensare e di inerrelazionare. Noi dunque siamo «società»; forse è meglio specificare «comunità», di fatto cultura e lingua. La verità è che non studiamo a sufficienza questa comunità invisibile. Sembra ne abbiamo timore, soggezione di scoprire qualcosa. Ora ho capito cosa temono gli udenti: la propria ignoranza; senza la ’stampella’ dell’udito, salvagente da utilizzare nel momento opportuno, per non  sprofondare.

L’articolazione delle parole

Lunedì, Maggio 15th, 2006

Bisogna conoscere bene l’apparato fonatorio per favorire una buona labiolettura. Chi ha avuto l’opportunità di apprendere l’articolazione delle parole prima di diventare sordo o audioleso, vale a dire il meccanismo motorio o cinestetico presente nell’area del Broca, si trova in vantaggio rispetto a chi apprende a parlare seguendo solo i movimenti labiali (…). La difficoltà di chi “parla”, senza l’ascolto della propria voce, è nel governo della favella, nella tonalità di emissione, i cui toni possono essere o troppo alti o monotoni. Ricordo che una volta era  difficile che un bambino nato sordo apprendesse ad articolare bene. Imparare a parlare era spesso stressante. C’erano famiglie che spendevano una fortuna perché il figlio parlasse la lingua verbale della maggioranza. Perché capiate le difficoltà dei meccanismi che conducono alla produzione corretta della parola, vi ricordo che alcuni scienziati hanno dimostrato che le differenze fra destra e sinistra nell’elaborazione auditiva del suono cominciano già nell’orecchio, mentre una vola si pesava che dipendesse da un’area specifica del cervello. L’orecchio è strutturato per distinguere fra diversi tipi di suoni e inviarli al lato ottimale del cervello perché siano elaborati. Sino a qualche anno fa nessuno aveva studiato il ruolo svolto dall’orecchio nell’elaborazione dei segnali uditivi. Ripeto che ci sono sordi capacissimi nell’uso delle parole, ma può restare una vittoria di Pirro. Se l’impostazione fonatoria è solo un esercizio di ripetizione i progressi non avverranno e il bambino resterà con una lingua subalterna, di ripiego. Quel che favorisce una buona comunicazione vocale sono: governarsi la voce, non mangiarsi le parole, pronunciare con tonalità adeguata ai contenuti, fare le pause, entrare nel discorso nel momento opportuno, rispondere alle altrui domande secondo il conntenuto esposto. Non è facile per chi è sordo stare dietro alla buona comunicazione verbale, ai segni di una lingua che non può essere controllata dal senso deell’udito.

Riabilitazione fonica

Sabato, Maggio 13th, 2006

La maggior parte degli operatori dei sordi vogliono lavorare sulla riabilitazione fonica, consistente  nel favorire l’articolazione  della parola il più possibile comprensibile all’orecchio degli udenti. Questo è bene: permette al sordo di pronunciare parole e frasi chiare agli ascoltatori, anche a chi “non ha fatto l’orecchio” alla sua voce. Sorge tuttavia un interrogativo che, con gli anni e gli studi universitari, si presentò sempre più insistente in me: perché non preoccuparsi in modo che il sordo segnasse bene, utilizzando un’appropriata grammatica visuomanuale? Ho assistito quando amici sordi - e io stesso - recitavamo la  poesiola per Sua Eccellenza il Vescovo che, entusiasta per la chiarezza della favella, benediceva l’azione benemerita della Madre e del suo  gruppo, ma non ho visto mai plaudire un religioso quando il non udente segnava così bene da ‘fondersi’ con/nella motilità del proprio corpo che, con e nelle sue mani, diventava messaggio di comunicazione profonda. Capivo che esisteva una parola diversa che non doveva essere - per forza - solo la lingua verbale. Per ora ero appiattito sulla considerazione del Priore di Barbiana, Don Lorenzo Milani, che diceva «E’ la lingua che ti fa eguali». Ricco o povero iconta meno, l’importante è che tu parli… la lingua della maggioranza! Era un discorso ineccepibile per gli scolari udenti, e  su questo il Priore aveva ragione. Ma nel nostro caso di sordi la volontà e il coraggio talvolta venivano meno. Perché? Semplicemente perché molti non ce la facevano a coordinare l’articolazione fonatoria. Le mani erano più svelte della lingua (fisiologica). Eppure la filastrocca dei docenti e degli Esperti era la solita: «Se impari a segnare sei perduto!» E l’assillante frase che tormentava la mia adolescenza era: «Se segni diventi sordomuto!» Non volevo restare senza favella. Ma intuivo che i miei amici silenti, senza comprensibile articolazione fonica, non dovevano essere giudicati terra terra. Nella mia lotta per conservare la voce non mi negavo i segni significativi, sebbene mi fossero vietati, con drastiche bacchettate sulle mani! I docenti e il gruppo degli Esperti tenevano molto al buon nome della Scuola, si sapesse dell’ostracismo alla mimica, come insistevano a chiamare la comunicazione dei sordi utilizzanti i segni.

William Stokoe scopre che…

Giovedì, Maggio 11th, 2006

Solo nel 1960 del secolo scorso lo statunitense  udente William Stokoe (cfr. Sign Language Structure, Spring Silver, Linstok Press) dimostrò che «i gesti dei sordi» erano segni che facevano parte di una vera e propria struttura linguistica, una lingua appresa attraverso il canale visivo e comunicata con la motilità significativa e l’espressività. Eh! io nel 1960 non era ancora entrato, per pochi mesi, nel Pianeta del Silenzio.

Ho scritto molto sulla lingua dei segni (da ora in poi LdS), sebbene la utilizzi -  nei movimenti - meno bene rispetto al sordo che è esposto alla stessa dalla nascita. Ci sono sordi bravissimi a segnare, pur essendo, talvolta, analfabeti. La loro condizione è simile a quella dell’udente che, pur essendo intonato, ricco di  immaginazione per raccontare storie (prendendo qui e là parole udite) non sa spiegare la grammatica utilizzata, i generi e il numero della sua «lingua». Questa lingua visuomanuale non è stata accolta  dignamente nelle Università (almeno  sino a qualche tempo fa), sebbene Virginia Volterra  dell’Istituto di Scienze cognitive e del linguaggio del C.N.R. sia stata meravigliosa nel tentativo di abbattere  i pregiudizi sulla LdS. Purtroppo le ricerche di  Virginia Volterra e del suo gruppo, sebbene apprezzate dall’esimio prof. Tullio De Mauro, sono state come il fumo negli occhi per gli otochirurghi, gli audiologi, le logopediste e gli estimatori del “metodo orale”. Ancora subiamo umiliazioni e sconfitte negli incontri internazionali con gli studiosi della lingua dei segni. L’ENS (l’Ente Nazionale Sordi) sta riparando al ritardo stimolando la ricerca  nei giovani con la prospettiva dell’insegnamento della LdS agli udenti  (e ovviamente ai sordi) nella scuola pubblica perché, ormai è dimostrato, che la lingua dei segni è utilissima per chi è abituato o assuefatto nell’insalatiera linguistica verbale d’oggi.

Mons. Giulio Tarra

Mercoledì, Maggio 10th, 2006

Come si augurava Mons. Tarra gli Stati d’Europa non persero tempo per proclamare il «metodo orale», approvato al Congresso di Milano. Persino la Francia, culla del «metodo gestuale» che aveva favorito molti successi negli allievi delle scuole, dopo il rapporto ufficiale  al Governo di Frank e Claveu partecipanti all’incontro di Milano, dispose negli Istituti Nazionali di Parigi e di Bordeaux di adottare il «metodo orale puro».

   Così fece la Norvegia.

   Lo stesso la Gran Bretagna.

   Idem la Svezia, la Norvegia, la Finlandia e la Danimarca.

   La Germania intende fare le cose in grande. Il Ferreri (1892) , nelle sue cronache ci ricorda che, in Germania, negli anni susseguenti il Congresso di Milano non c’è libro, non c’è relazione che non scriva o non riporti i contenuti del convegno, tanto è vero «che i maestri dellla Germania cominciano a chiamare metodo italiano il metodo proclamato dal Congresso internazionale».

La domanda ricorrente è: come mai l’Europa fu invasa dall’oralismo? La risposta ci viene dall’osservazione della società del tempo, fondata sugli scambi relazionali attraverso la parola, il verbum per antonomasia. A scuola prevaleva il nozionismo. Come in parrocchia nelle lezioni di catichismo. Il bambino udente imparava a memoria la filastrocca, l’Ave Maria e il Pater Nostrum dalla madre analfabeta. Pochissimi erano i libri in circolazione nelle case rurali, lontane dalle città. Le biblioteche un privilegio degli aristocratici e dei conventi. Il sordo era sventurato due volte: perché incapace di utilizzare il dialetto parlato dal popolo e perché, appunto, “ignorante” (ignorare ciò che succedeva nella comunità), finiva per essere considerato straniero, fuori dal gruppo. Se andava a scuola, di solito messo in istituto, l’unico col quale poteva avere un ipotetico scambio comunicativo era il maestro. Per il sordo impare a leggere e a scrivere era  tutto: liberarsi dal giogo del servilismo. Ma il maestro era udente, a scuola utilizzava la lingua italiana e, tra la gente comune, il dialetto. Era valutato - non tanto sul profitto didattico dell’alunno - sulla capacità di articolare, in modo comprensibile, le parole. Oggi, il lavoro di demutizzazione, è compito della logopedista. Sino a quando gli «handicappati» non furono accettati, nel 1977, con la famosa legge «517» nelle classi  comune della scuola pubblica, erano lasciati in balia alla volontà del maestro «per imparare a parlare». Nel nostro Paese le prime logopediste entreranno in servizio, alle dipendenze degli enti locali, a metà degli anni Settanta del secolo scorso. Appena accolte nelle scuole crearano casini; loro stesse non avevano chiaro il proprio ruolo: se solo riabilitativo o anche didattico. Succedeva che la logopedista entrava in classe, prendeva per mano l’alunno e se lo portava in un’aula attigua saltellando tra esercizi logopedici e nozioni didattiche.

L’oralismo di Mons. Tarra… non è cognitivo

Martedì, Maggio 9th, 2006

Abbiamo visto che Mons. Tarra voleva tutti i sordi «parlanti»: buona articolazione della parola, lettori delle labbra, comprensione possibilmente anche dell’accento, e se molti ripetevamo come pappagalli parole e frasi, per lui era secondario. Nel Pianeta del Silenzio gira questa storiella.

   Il confessore chiede al ragazzo:

   «Quante volte ti tocchi?»

   «Molte volte, Padre… »

   «Una volta?»

   «Di più.»

   «Due volte?»

   «Di più.»

   «Tre volte?»

    «Di più! di più!

   «Cristo, come mai così tante volte figlolo?!»

   Il ragazzo scoppia a piangere: «Come faccio a lavarmi la faccia, a pettimarmi. a pulirmi il c.?»

   Più chiaro di così! I bravi sacerdoti - e gli Esperti - non si rendono conto che, spessissimo, il sordo ‘traduce’ la parola alla lettera. Il problema non è il segno manuale, che è sempre esplicito quando ha un referente, ma la metafora costruita sul castello delle parole, spesso i modi di dire gli sono astrusi per accedere al contenuto. Chi ha insegnato o insegna ai sordi è a conoscenza di questo. Molti di loro utilizzano i codici verbali senza adeguarli ai contenuti (concetti) che, loro stessi, hanno in  mente.

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Il Congresso internazionale di Milano del 1880

Domenica, Maggio 7th, 2006

La questione del «metodo orale». a livello didattico, è un’invenzione degli educatori e dei docenti udenti che non sanno comunicare, con altre modalità, con gli scolari sordi. La storia dell’educazione dei sordi è infellice. Il coattismo verbale inizia col Congresso internazionale di Milano del 1880. Il presidente dell’assise è Mons. Giulio Tarra. Uomo di vasta cultura classica, pedagogica e teologica. Gioca in casa: e sfrutta l’occasione in tutti i modi, prostrandosi alle richieste dell’Autorità politica che richiedeva considerazione per i rappresentanti francesi, allora l’Italia era in dissiduo con la Francia. Tarra ha forte carisma sui direttori delle «scuole speciali», non sono altro che gli Istituti per Sordomuti, come è scritto sulle targhe dei portoni. Al Congresso di Milano partecipano più di 100 invitati da tutta Europa e anche dall’estero. Spicca la presenza dell’americano Th. Gallaudet, figlio e marito di sorde. L’unico capace di servirsi contemporaneamente sia della lingua dei segni (chiamata dall’ignoranza dei presenti meramente «mimica») sia della parola verbale.    L’insistenza sull’utilizzazione, nell’istruzione dei sordi, del metodo orale è nel fatto che si credeva che «il gesto», come veniva definito, rovinasse la scioltezza della parola vocale. Ecco la stesura dell’atto finale. «Il Congresso, considerando la non dubbia superiorità della parola sui gesti per restituire il sordomuto alla società e dargli una più perfetta conoscenza della lingua dichiara: Che il metodo orale deve essere preferito a quello della mimica per l’educazione ed istruzione dei sordomuti.» Tutti i congressisti plaudirono l’impostazione del metodo, meno i due americani Gallaudet e Peet. Non era finita. Il Monsignore, esaltato dall’approvazione degli italiani e  di tutti i rappresentanti d’Europa, insiste: «Colleghi non illudiamoci, come io pure per alcuni anni m’illusi! Non illudiamoci: perché la parola s’insegni con vero effetto, bisogna aver coraggio, e con un colpo risolutivo tagliare di netto fra la parola e il gesto e ogni altro mezzo che con la pretesadi cooperare alla parola, venga a incepparla e a paralizzarlne il valore.» Chiaro che nel tempo del Congresso di Milano non c’era la logopedista. L’insegnante dei sordi doveva occuparsi anche della riabilitazione fonica, «mettere il sordo nella capacità di parlare a voce». Il lavoro del docente veniva giudicato nella constatazione della buona articolazione fonica degli alunni. Non veniva considerato lo psittacismo, il nozionismo fraseologico senza che il sordo comprendesse i significati delle parole, i contenuti. Poi c’era il pregiudizio che il segno non fosse all’altezza di esprimere l’astratto. Come confessare poi i peccati al sacerdote, ministro del Signore in terra? Se il prete non rusciva a decodificare la voce del sordo(muto) non poteva assolverlo e quindi non poteva essere ammesso alla comunione. Ecco perché, le brave suorine, si affannavano “a far parlare i sordomuti”. Le Risoluzioni furono otto. Fino alla metà degli ann Sessanta, del secolo scorso, influenzeranno l’educazione e l’istruzione dei sordi italiani. Io stesso ne ho fatto le spese nell’Istituto nazionale per sordomuti di Firenze qando, frequentando la scuola «media unica», dopo la riforma del 1960, sostenevano  gli Esperti dell’istituto che dovevo fare due anni per classe «perché i sordi impiegano il doppio di tempo per apprendere rispetto i coetanei». Solo anni dopo capii che speculavano, molti istituti, sulle rette di mantenimento sborsate dalle province di appartenenza degli alunni.