La parola verbale

Quante volte ho letto, e ascoltato nel tempo della mia infanzia e fanciullezza uditiva, la parola! Quando si pensa alla «parola» si fa riferimento, per il 99%, alla parola verbale. Ma effettivamente che cos’è? Io la considero come vestire il segno di sonorità. Lo costatiamo nei bambini udenti. Ci vuole quasi un anno di vita per raggiungere l’autonomia di produrre tra le 12-20 parole. Ne comprendono molte di più, tuttavia l’apparato fonoarticolatorio non è ancora pronto perché il piccolo pronunci bene le parole. E’ sottomesso alle tappe di sviluppo del linguaggio: dai primi vocalizzi alla lallazione, dall’unione dei fonemi-sosia al morfema e via via verso l’appropriarsi della linguaggio sociale. Ciò che scrivo sono elementari informazioni psicolinguistiche che ogni studente di scienze della formazione conosce, per gli psicologi è routine ripetitiva.

Per secoli i sordi(muti) sono stati sollecitati a parlare a voce, cioè a divenire «altro». Sottomessi ad un comportamento improprio, non conosciuto direttamente. Gli educatori dei sordi compivano il massimo sforzo per far sì che i propri allievi ‘emettessero’ la favella. Il processo di demutizzazione faceva sì che fosse eliminata la mutezza. La scuola era chiamata a «dare la voce il più possibile normale»: e l’impegno si estendeva per tutto il ciclo scolastico. Talvolta gli anni, per la frequenza della stessa classe, venivano raddoppiati per dare, al docente,  il tempo necessario d’impostare l’articolazione delle parole. Ricordiamo che l’insegnante svolgeva, ai miei tempi, la doppia funzione di riabilitatore logopedico e docente di didattica. Ma i direttori delle Scuole, o gli Ispettori fermavano l’attenzione solo sulla capacità di parlare con i codici verbali piuttosto di indagare sull’apprendimento, sui concetti, dil pensiero. I sordi erano allenati allo psittacismo, un parlare a vuoto, nozionistico. «I gesti» e la «mimica», come erroneamente indicati, erano sottoposti all’ostracismo nelle aule scolastiche. Il metodo oralista dominava sovrano in ogni dove d’Italia. Nelle aule di molti Istituti regnava, sulla parete, lo sguardo di Mons. Giulio Tarra che, con autorità nel Congresso famosissimo del 1880 di Milano, aveva indotto i convegnisti a votare, senza indugi,  la sua mozione «d’insegnamento della parola con la parola» (v. Atti… ).  I docenti venivano selezionati per la maestrìa di “come si insegna la parola”, piuttosto per le conoscenze didattiche, o dei processi percettivi. Se ci riflettiamo e procediamo criticamente ci avvedremo che, i sordi, erano sottoposti al coattismo linguistico. Negli anni futuri della maturità, dopo aver studiato (e non solo letto, sic) all’Università i linguisti, approfondito i processi di linguaggio mi sono avveduto che i maestri di allora (e i miei insegnanti) erano terrorizzati l pensiero che ci lasciassero «senza favella», muti. L’ignoranza faceva sì che ci impedivano l’accesso alla reale funzione dell’ascolto: la nostra attitudine di sviluppare la lingua del vedere. Molti docenti credevano che il possesso della lingua vocale conducesse al trascendente, al ragionamento. Schiere di pedagogisti clinici, dall’antesignano Itard (v. Il ragazzo selvaggio dell’Avayron), si scervellano sulla lingua. Ogni generazione di docenti cosiddetti specializzati «inventavano» un metodo per «far parlare i sordi», «per insegnare la lingua normale (sic!) a sordi». Sempre a battere lo stesso tasto. Sempre i bambini sordi  sottoposti allo stress della parola. Nessuno si interrogava su qual è il compito di un educatore? Io penso sia mettere il discente nella contentezza di vivere. Ci volle il  francese Henry Laborit, scienziato di fama mondiale, nonno della sorda Michelle, autrice del libro autobiografico Il grido del gabbiano che, con  la sua eutologia, dimostrò che la vera normalità consiste nel «star bene nella propria pelle». Questo l’ho compreso quando, componente della Federazione Mondiale dei Sordi, girando il mondo mi accorgevo che nessun sordo era infelice, emarginato, viveva bene nella propria pelle purché fruisse delle strutture, del personale esperto per il superamento delle barriere di comunicazione. Bisogna fare attenzione e chiarire: non è che i sordi rifiutano la parola verbale, la vogliono apprendere - dico apprendere perché è proprio così, il procedimento di acquisizione non avviene come nel bambino udente che è «vestito dalla lingua vocale» senza sforzo, nell’interrelazione acustica-verbale con l’ambiente. Il sordo deve impegnarsi nel processo d’apprendimento, vale a dire «imparare». E’ uno sforzo cognitivo complesso. Se non c’è tale capacità, la minima possibilità di parlare a voce va dispersa. Gli «oralisti» non ci riflettono. Chiedono al sordo di diventare come loro, ma lo sforzo è sempre unilaterale; al contrario  pochissimi udenti sono in grado di entrare nella doviziosità della lingua visuomanuale. Certo, gli interpreti di lingua dei segni sono dentro il sistema linguistico dei sordi, ma raramente nella quoridiana comunicazione, a meno che non abbiano familiari o partner sordi, la utilizzano. Molti miei compagni sprofondavano nell’abulia, nella depressione, si caricavano di rabbia quando erano bloccati proprio in quel canale tramite cui avrebbero manifestato le loro potenzialità emotive e intellettive. Non riconosciuta la lingua dei segni - se non che quando erano utilizzati  anche i codici verbali della maggioranza - i sordi finivano cancellati come persone che comunicavano. La loro intenzione d’essere soggetti con la lingua dei segni, lingua che doveva essere favorita e insegnata “proprio come una lingua”, e non avveniva, annullava anche la loro volontà d’apprendere la lingua verbale. Eccoli senza nessuna lingua: ignorati nell’invisibile disabilità.

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