La padronanza della lingua

C’è qualche lettore del Blog che sollecita di portare esempi, prove, delle affermazioni sulle difficoltà di scolarizzazione dei sordi. I riscontri sono evidenti, basta contattare i docenti cosiddetti di sostegno (spesso inconsapevoli) che hanno in carico un audioleso o sordo, verificandone l’approccio interrelazionale col proprio scolaro, e la didattica adottata, per avere risposte esplicite (…). «Ho riflettuto sul fatto che l’unica cosa da fare consisteva rappresentare esattamente la lingua parlata con la visione, in tempo reale» ammette R. Orin Cornett. La sordità non è una malattia ma una filosofia, uno status. Noi sordi ci lamentiamo spesso di non essere compresi nel nostro essere sordo. Vero per un’alta percentuale. Parecchi però si fermano qui. Giunge a pennello la riflessione di Bochner e Albertini (1995): «La padronanza di una prima lingua nell’infanzia stabilisce le basi neurologiche per l’apprendimento delle lingue nell’età successiva e adulta. Se la padronanza in una prima lingua non è stata raggiunta all’inizio dell’adolescenza, come succede di solito nella popolazione sorda, il progresso nell’acquisizione è inibito o soppresso.» La maggior parte dei sordi resta senza una lingua principale: né lingua dei segni né lingua verbale. L’impianto cocleare non può supplire completamente alle carenze percettive dell’acustico-vocale; lo stesso è quando pretendiamo che il bambino sordo vada alla «scuola di linguaggio» pensando che, parlare, sia prerogativa esclusivamente di un processo meccanicistico, lontano dallo sviluppo dell’inconscio; si apprendono i segni linguistici, i codici di una lingua appunto, le regole grammaticali con cui ci caliamo nella dialogicità dell’interlocutore, ma non «il linguaggio»; nel sordo, con la  carente percezione del segno vocale, viene meno anche la conoscenza del gioco dei segni nell’ambiente, vale a dire nella comunità o gruppo in cui vive e interrelaziona. Molti sordi, quando parlano, sono scambiati per stranieri, proprio perché «imparano» la parola cognitivamente, ma non possono appropriarsi dell’accento, prerogativa di chi ascolta.

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