Riconoscere con legge la lingua italiana dei segni

Da parecchio tempo mi sono accorto che parliamo di LIS (Lingua Italiana dei Segni), ma non riusciamo a convincere la comunità scientifica, almeno quella non addetta ai lavori, o i parlamentari italiani - perché la riconoscano con legge - che abbiamo una lingua e che la stessa sia appresa dai docenti specializzati che insegnano ai sordi.

Le interpreti di LIS (mi domando se è precisa la definizione)ho verificato registrando parecchie apparizioni in televisione, che le traduttrici  dei telegiornali di mediaset, che sono tutte milanesi o lombarde, utilizzano molti segni differenti rispetto le colleghe della RAI, che sono per lo più romane o del centro sud. Ecco che ci troviamo a dichiarare che in Italia esiste un «dialetto segnico» piuttosto che la «lingua italiana dei segni». La lingua visuomanuale utilizzata dai sordi deve essere ancora unificata. Oh, non deve sorprendere perché sappiamo che il dialetto fiorentino impiegò secoli per essere considerato lingua italiana (l’italiano), sebbene il veicolo di diffusione fosse la Divina Commedia di Dante Alighieri!

E’ accertato che i nostri interpreti di LIS sono generici. Siamo carenti di esperti per tradurre le discipline quali le scienze sociologiche, filosofiche, psicologiche, economiche, mediche eccetera. Di sicuro la colpa non può essere attribuita agli interpreti. Dobbiamo essere noi a iderare i segni appropriati secondo le teorie studiate, le definizioni corrispondenti al contenuto che si vuole “fare intendere”. Sono sempre le persone a creare la lingua che loro stesse utilizzeranno: «comunicare» è mettere insieme, nel nostro caso sono messi insieme codici. Sono convinto che spetta a noi protagonisti diventare lingua nel momento in cui la utilizziamo per/nei i bisogni. Gli studenti sordi frequentanti le nostre Università fruiscono del servizio di interpretariato (come stabilisce la legge), ma non per questo possiamo dire che le operatrici traducono la lingua italiana del docente che  sta utilzzando parole complesse in altrettanti segni visuomanuali complessi o codificati conosciuti dallo studente segnante. Qui entrano in gioco i processi mnemonici diversificati (…). Infine ricordiamo che il docente prepara la lezione utilizzando la lingua italiana, ripeto,  focalizzando il tutto su una spiegazione domanda-risposta, di cui ha esperienza diretta nell’apprendimento. Perché è udente e perché ha appreso seguendo la stessa modalità del discente. Vero che il compito del docente è semplificare i contenuti. La sua presenza didattica ha l’obiettivo: spiegare, semplificare, approfondire. E’ tutto così semplice per lo studente e il docente udenti! Per il sordo è un problema, anzi il vero problema dell’apprendimento, al quale - a mio giudizio - pochissimi lavorano per favorire  il sordo nello appropriarsi dell’alta cultura.

Sono convinto che nei prossimi anni, gruppi di psicologi, sociologi, antropologi, economisti e così via sordi potranno comunicare segni conformi alla loro disciplina, appropriati ai contenuti della loro professione. Sono segni che loro stessi dovranno fornire alle interpreti di LdS che sapranno tradurre le lezioni universitarie e i masters di aggiornamento con efficacia. Non scorderò mai le parole del filosofo udente che, dopo avere ascoltato la relazione di un collega sordo,  professore alla “Gallaudet University” negli Usa, unica Università al mondo dove i professori sono capaci di utilizzare la lingua dei segni  (benissimo tradotto a voce per gli udenti presenti da una capacissima interprete filosofa) sulla Metafisica di Aristotele, disse: «In tanti anni di studio e ricerca non sono riuscito a vedere in Aristotele ciò che ha considerato il collega sordo.»

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