Oliver Sacks e i sordi (II)

Oliver  Sacks incominciò a capire i sordi nel momento in cui ha iniziato a frequentarli e a comunicare con loro. Ciò che non è mai riuscito a Itard, medico che, quotidianamente, frequentava l’Istituto per sordi di Parigi il quale, sul letto di morte, disse che il loro modo di comunicare andava benissimo, vale a dire « (..) il meno può anche nascondere un più» (O. Sacks). La maggior parte dei docenti o delle logopediste chiedono agli scolari sordi di labioleggere. Chi vi si adatta, di solito è un’azione esercitata da colui che è divenuto sordo, che ha familiarità con le parole, tuttavia si trova di fronte come colui che deve comprendere da una  «traduzione istantanea e automatica» (O. Sacks). Invece la persona sorda grave succede che «egli vede la voce, non la ode» scrive sempre  il neuropsicologo, trovandosi quindi in una continua situazione di ansia che via via va aumentando tanto più quanto l’interlocutore insiste sulle parole che non riesce a comprendere globalmente o gli sono nuove. Ciò fa dire a Sacks che «un individuo minorato nel linguaggio (…) è una calamità più sfortunata, perché è solo per mezzo del linguaggio che entriamo in possesso della nostra umanità.» Ma quale linguaggio? Qui si spalanca una porta in cui gli psicologi e i pedagogisti, i neurologi e gli psicolinguisti e i nuovi studiosi delle aree cerebrali, hanno individuato nel sordo, un cervello speciale. Dagli studi di Chomsky a quelli del nostro Giacomo Rizzolatti abbiamo individuato un progetto efficace seguendo un percorso bilingue del bambino sordo, scrive O. Saks che è “allettante” questo compromesso tra segni e lingua vocale. Tuttavia aggiunge, nel suo sforzo ideativo per il bene del sordo, di pensare a un “progetto  di creare una lingua intermedia tra l’inglese e i Segni (ossia un inglese segnato)».

(continua)

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