Oliver Sacks e i sordi (I)

Nel testo di O. Sacks, Vedere voci (Adelphi, Milano 1990) si comprende le difficoltà incontrate dalle persone udenti nel valutare le capacità psicointellettive dellle persone sorde o ipoacusiche. Se ciò mette in difficoltà un neuropsicologo di vasta cultura dei processi mentali, figuriamoci cosa potrebbe accadere (infatti succede quasi sempre!) alle persone che non hanno svolto letture o studi approfonditi su questi specifici temi. Sacks ha compiuto un lavoro di esorcizzazione, liberandosi dal pattume di un’imitazione passiva, dal momento che scrive che la frequentazione dei sordi l’ha indotto a rivedere il linguaggio, la natura del parlare e dell’insegnare, il funzionamento del sistema nervoso, la formazione delle comunità, dei mondi, delle culture in “modo del tutto diverso (…)” (cfr op. cit. p. 14). Troppi si soffermano a consideare “linguaggio” quel che è solo una imitazione di un esercizio ginnico che dà origine alla sonorità, grazie alla espirazione-inspirazione dell’aria. B. F. Skinner dichiara esplicitamente che il linguaggio è un comportamento verbale acquisito allo stesso modo di altri comportamenti. Piaget ammette che il bambino ha la capacità di rappresentarsi mentalmente le azioni come fondamentale base per l’acquisizione del linguaggio. Vygotskij precisa: «Il pensiero non è semplicemente espresso in parole. Esso inizia ad esistere attraverso esse.» (cfr L.S. Vygotskij, Peniero e linguaggio, Giunti e Barbèra, Firenze 1984 u.e.) Per Schaffer linguaggio e pensiero sono costruiti nel rapporto interrelazionale col gruppo dei pari. Ma è Sacks a comprendere che «Il linguaggio e il pensiero sono sempre personali; per esempio ciò che diciamo, come pure il discorso interiore, è espressamente peculiare di ciascuno (…)». E’ risibile, come capita a qualche ingenua logopedista, la diceria che «il bambino sordo va alla scuola di linguaggio», o «il bambino sordo apprende il linguaggio». La definizione corretta dovrebe essere - se avrà la fortuna di avere un’ottima logopedista - : «Il bambino sordo o ipoacusico si ingegna con esercizi ginnici labiobuccali e guttuali per impostare gli apparati dell’articolazione fonica per produrre codici comunicativi espressi con la sonorità.» Lo psicologo statunitense H. G. Furth l’ha compreso bene, e nell’opera Pensiero senza linguaggio, edito da Armando, Roma 1993 u.e., ne viene a capo. Egli ci ricorda che siamo precipitati nell’obsoleto pregiudizio psicocognitivo di attribuire alta intelligenza a chi sa parlare bene o utilizzare, con maestria, le parole verbali. Questo ha spinto molti pedagogisti e psicologi a concludere che, essendo il sordo uno scarso parlante, un incapace all’utilizzo delle parole vocali, di fatto è da considerare kofos (vuoto), confermando la definizione aristotelica.          

 (continua)

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