Gli studiosi che facevano scuola nella formazione dei docenti

Sino a metà degli anni Settanta del secolo scorso c’era ritrosia per condurre approfondimenti e ricerche sull’istruzione ed educazione dei sordo(muti). Il motivo evidente: i laici che insegnavano nelle Congregazioni religiose si guardavano bene di pestare i piedi o di contraddire i maestri conclamati tali sia dalle stesse Istituzioni sia dagli allievi. Prevalevano studiosi ecclesiastici: da una parte i Profico, gli Elmi, gli Zecchini, dall’altra alcuni laici come i Francocci, i Gaddi, gli Scuri e pochi altri.  Coloro  che avevano supporti politici e/o vertici di Curia dirigevano le «Scuole di Metodo» dalle quali uscivano i nuovi docenti che iniziavano ad istruire i sordi nelle poche scuole statali, per la verità solo tre; le altre erano governate dalle Congregazioni religiose e alcune dall’Ente Nazionale Sordi  (ENS). Ma perché i cosiddetti laici non si davano alla ricerca, agli studi comparati eccetera? La risposta è semplice: molti di loro erano privi del titolo accademico. Non sapevano come si predipone una tesi di laurea. Non scherzo; pertanto non avevano idea di esercitarsi su un programmato lavoro scientifico; al massimo si davano alla prosa (…). Insegnavano col metodo appreso dai loro maestri nelle Scuole di Metodo. Ricordiamo che parecchi di loro erano reclutati dalle Congregazioni o da Enti allorché - rimasti esclusi dall’accesso alla cattedra per i normodotati - erano reciclati per l’insegnamento ai «poveri sordomuti». Insegnavano per mesi, talvolta per l’intero anno scolastico addirittura gratuitamente, per il solo fatto di conseguire il ‘punteggio’. Inoltre i neo docenti non entravano in sintonia con gli alunni, salvo eccezioni. Sicard, successore nel famoso Istituto per sordomuti di Parigi di Padre de l’Epée, paragonava il cervello del sordo non istruito ad una pagina bianca, tabula rasa, considerandone i sensi spenti, incapaci di condurre lo stimolo all’apparato cerebrale. Si attendeva che qualche studioso, di buona  volontà e sveglia intelligenza, iniziasse ad indagare sui processi linguistici visivi dei sordi, sulla memorizzazione e altro ancora. Le Università italiane, solo all’alba del terzo millennio, proporranno moduli d’insegnamento di discipline quali Psicologia dell’handicap, Laboratorio per i linguaggi del sostegno (Moduli  per l’infanzia e scuola primaria) e altri insegnamenti nei corsi (affrettati) per il sostegno nella scuola secondaria. Pochissime Università hanno dato incarichi a sordi laureati in lingue o in psicologia. Anche perché  un numero considerevole di studenti sordi hanno conseguito la laurea in fretta, sospinti da chi li ha accompagnati nell’itinerario accademico, gli interpreti, i quali - per evitare la disoccupazione - diventano avvocati difensori di una comune causa! Molti sordi, che si apprestano oggi alla docenza come incaricati all’insegnmento dell LIS (Lingua Italiana dei segni), mancano letture riflessive su L.S. Vygotskij, su (de) Saussure, su Piaget, sulla Montessori, su Lurija, senza queste basi sono modesti «addestratori» di una lingua che, i futuri docenti di sordi, potranno anche apprendere nella ripetitività del segno motorio, ma con deficienze teoriche che gettano ombre sulla didattica e dubbi su chi ne segue le lezioni.  Ma se da una parte assistiamo ancora a docenti sordi o audiolesi con carenze nella propria diciplina insegnata, la lingua dei segni, dall’altra notiamo anziani docenti che, al termine della loro carriera «linguistica-logopedica», come il recente testo di Giuseppe Gitti, Sordità e apprendimento della lingua, FrancoAngeli, Milano 2007, induce a confendere chi si avvicina alla conoscenza scientifica dei processi psicocognitivi e linguistici del sordo. Gitti ha sempre escluso dalla sua attività riabilitativo-logopedica la lingua dei segni, giudicandola non lingua o prettamente mimica. Oggi, nella sua terza età attiva, recatosi in Africa ha notato che, anche ivi, i sordi segnano, optando «che nessuno può negare alla persona sorda di utilizzare la LIS o di frequentare chi e la comunità che vuole» (op. cit. p. 114). Gitti non ha mai sperimentato la LIS nell’interrelazione con i sordi perché non la conosce come lingua ma (forse) sa eseguire qualche segno. Di fatto non la esamina da linguista, la considera un obbrobrioso mezzo che soffoca la possibilità di apprendere la lingua verbale.

A questo punto ci sono due riflessioni: da una parte pochi ricercatori sordi italiani sono all’alteza di difendere e rispondere scientificamente che la lingua dei segni è efficace mezzo per esprimere il pensiero e l’emozione; dall’altra ci sono ancora “maestri” formatori di logopedisti e insegnanti di sostegno con pregiudizi e carenze che bloccano le intelligenze non temprate. E’ bene studiare la LIS - come vogliono i sordi - ed è giusto che sia così. Ma ricordiamoci che la risposta per il nostro reale progresso linguistco (non solo nell’accoglienza e utilizzazione della LIS nell’interrelazione) è nella full immersion visuomanuale in cui la primaria lingua si coniuga con la vocale, troppo spesso dal sordo considerata ‘pesante’ e che, con l’altra, si sposa per aprirgli le ali e oltrepassare chi si fossilizza sulla lingua  scaturita  dall’orecchio e dalla struttura labiobuccale (..)..

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