Il termine insegnante di sostegno nasconde l’incapacità dello Stato di fornire docenti specializzati

Nei miei molti interventi su riviste specializzate, nelle relazioni ai convegni ho sempre considerato forzatura, fuori luogo, utilizzare la terminologia «insegnante di sostegno», riferendomi al docente che propone la sua attività didattica per alunni con problemi di disabilità. La generalizzazione degli interventi sull’istruzione ed educazione di soggetti con deficit sensoriali, o fisici, o psichici che limitano od ostacolano l’approfondimento di una scolarizzazione efficace, nel nostro caso la popolazione scolastica sorda, lascia sempre  nella mente dello studioso o ricercatore un discorso inconcluso. «Il primo passo» scrive Franco Gavazzi (v. Il Corriere della sera del 15 giugno 2008.) «per una riforma della scuola è quella dell’abbandono dei concorsi pubblici… ». Occorre in pratica che le assunzioni siano decise da chi deve poi rispondere dell’operato del docente. Oggi il reclutamento, come è noto, avviene mediante l’ordine occupato in graduatoria, capita di frequente che un docente di discipline letterarie sia chiamato «a sostenere» discipline per le quali non ha titoli accademici o, al massimo, una base di studi insufficiente. Abbiamo esempi evidenti di laureati in lettere moderne sostenere ragazzi sordi del IV o V anno negli insegnamenti  di Costruzioni o Topografia negli Istituti tecnici per geometri, riducendosi di fatto a  prendere appunti delle lezioni del collega e poi passarle allo sfortunato studente. E’ imbarazzante affermare che questa sia da considerare didattica specializzata. E’ solo un’umiliante occupazione che, la disabilità di uno studente, offre ad un operatore della scuola; a perderci, peggio a vergognarsi di questo modus operandi, sono tutti  i docenti della scuola, in primis i dirigenti scolastici; allo studente problematico è negata una didattica conforme ai bisogni. Cosicché (siamo in Italia!) il docente, pur di avere un tornaconto economico, si presta ad occupare un delicato incarico per il quale non ha il titolo accademico; persino la scuola stessa – nella massima dirigenza  rappresentata dal dirigente scolastico - sa d’inviare in classe un incompetente.  Cerchiamo di essere seri: quale primario di una struttura sanitaria si farebbe carico di responsabilità allorché, per esempio, ad un oculista è messo in mano il bisturi per interventi chirurgici al di fuori del proprio settore professionale o per il quale è stato assunto? Il ministro dell’istruzione, Maria Stella Gelmini, deve ripensare una scuola competente, prima di tutto negli insegnamenti qualificati, vale a dire nell’opera di fornire la prestazione didattica specializzata. Solo il dirigente scolastico, come del resto il dirigente sanitario dell’ospedale, è in grado di sapere l’ «esperto» necessario per il suo reparto per la soluzione del problema e, nel nostro caso, il docente specializzato di didattica da mettere a disposizione del sordo per favorirne il processo di apprendimento. Oggi si sprecano risorse economiche senza cavare un ragno da un buco per l’utilità dell’alunno o studente sordo (faccio riferimento a lui perché è il protagonista a cui muove la mia attenzione da sempre NdA), ma vale  anche per gli altri disabili accolti nella classe comune.  Convinciamoci che la qualità dell’integrazione passa nella corretta scelta delle capacità di chi governa l’istituzione: e questo è imprescindibile dalla frenesia di scalare la graduatoria provinciale per anzianità di servizio o per accumulo di punteggio per numerosa figliolanza, oppure aver prestato servizio in sedi disagiate. Infine solo attraverso l’autonomia della programmazione didattica (fondamentale per il disabile) scaturisce le professionalità del docente. Oggi non possiamo affermare che lo Stato fornisca docenti specializzati per la scolarità dei disabili; talvolta parlarne è un tabù, allo stesso modo di quando indichiamo la disabilità nuda e cruda con i termini sordità, cecità, eccetera. E’ molto facile nasconderci nel generico, nella terminologia «insegnante di sostegno», volutamente scordando che nessun capitano di una nave imbarcherebbe il marinaio generico o senza stabilire il ruolo di ciascuno in base alle competenze professionali. La riforma di una scuola seria passa nello studio e decentramento di una didattica predisposta su un POF con la collaborazione di una équipe sociopsicopedagogica focalizzata sul docente specializzato, a mente della disabilità dell’alunno e – per la scuola secondaria – considerando ovviamente il titolo di laurea dell’insegnante. Piuttosto che continuare a fingere su un docente “samaritano” factotum com’è quello d’oggi, un tenere alunni o studenti in classe senza fornirgli una didattica all’altezza, effettivamente specializzata, la quale obbliga il docente ad un impegno superiore rispetto al collega curriculare per il ragazzo cosiddetto normodotato.
Su questa direttiva, che dovrebbe prima di tutto essere proposta agli organi Istituzionali dall’associazione nazionale (l’ENS), si gioca la riforma della scuola a favore dei disabili e, in particolare, della formazione del docente specializzato che opererà per l’istruzione dei sordi. Sappiamo che è un compito difficile, ma non impossibile, di sicuro affascinante.

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