Nominazione del partito: «Lista Antonio Di Pietro» o/e «Italia dei Valori (IdV)»?

Antonio Di Pietro aveva affermato, in un incontro nazionale,  che era giovevole spersonalizzare il partito, auspicando l’eleminazione del suo nome e cognome dalle bandiere,  gadget e manifesti eettorali. L’iscritto e il simpatizzante dovevano abituarsi a focalizzare l’occhio esclusivamente su «Italia dei Valori» e non sulla «Lista Di Pietro». Abbiamo riscontrato nell’ultima campagna elettorale  delle elezioni politiche del 2008 che c’è, in tutti i leaders, il tentativo di personalizzare il proprio partito; alla lettera imitano Luigi XIV che,  con prosopopea, affermò:  «Lo Stato sono io». Ecco che i Casini, le Santachè, i Berlusconi ecc. sovrappogono il proprio cognomme alla denominazione del partito. Non penso sia idonea scelta - per proporsi - di psicologia sociale. La personalizzazione del voto non tiene alla lunga perché genera  gli opposti: disamore o disprezzo del capo e fanatismo. Se da una  parte una percentuale di «elettori deboli» abbocca ce ne è un’altra che ne ha repulsione, distacco e fuga. L’accentramento del partito su se stessi può funzionare là dove è limitata la propaganda,  usabile nel passaparola per un popolo analfabeta, ma difficile che funzioni in una società massmediale come l’attuale. La democrazia matura non indirizza l’elettore sul leader del partito, ma su un progetto, su un obiettivo di fondo, sul programma. Nel nostro caso è bene eliminare «Lista Di Pietro» per sposare prettamente la dicitura «Italia dei valori» perché, - i valori - dell’IdV non sono gestiti solo da Di Pietro ma da ognuno di noi. Sono il frutto di una scelta di ciascuno inducendoci alla lotta, a inserirli e sostenerli nel programma elettorale. «IdV» non deve per forza ‘puntare’ solo sul carisma e la storia di ADP. Di Pietro merita plauso, è il motore che muove il partito, è il patos che ci sprona a seguirne la linea. Ma ricordiamoci che è un errore farlo diventare capro espiatorio di eventuali sconfitte, o fughe dal partito, o di “infiltrati” tipo De Gregorio. Proprio per questo è necessario spersonalizzare il partito, aprire alla democrazia di base, alle testimonianze forti degli iscritti capaci. Meglio perdere il voto dell’elettore che sta a ruota piuttosto d’umiliare il giovane che lavori con entusiasmo per la crescita dell’IdV. Quello ha bisogno della balia del “padrone”, non sarà mai maturo politicamente e, al  primo annuvolamento, sarà voltagabbana. Quest’ultimo è un investimento per il futuro, per le successive elezioni.  Crescerà con riferimenti precisi, idee critiche e autonome, all’altezza del confronto costruttivo con altre fazioni politiche. L’IdV ha iniziato a crescere ed è difficile avere idee chiare quando un partito compie il salto di espansione. Come succede ai genitori  notando il figlio nell’esplosione dell’adolescenza. Stargli addosso allarmandolo di divieti e paure ne faranno un temerario, un indeciso, uno senza valori perché, come scrive il sociologo Edgar Morin, «siamo malati di iperindividualismo, di protagonismo, di narcisismo».  Tutti i politici che sbandierano il proprio nome e cognome su un gadget o manifesto politico non saranno mai statisti perché hanno fondato il partito su sabbie mobili. Chi si autoproclama da “solo” leder, e come tale si mette in mostra, dimentica di palesare la limpidezza della propria storia politica e democratica per acquisire il potere, imprescindibile dal consenso di base. Se non possiede questa doviziosità  ed umiltà è il classico re nudo. Lo stesso accade a chi ha fondato un partito, un movimento, un gruppo insomma, egli si sente «padre» dello stesso, fatica  a staccarsene, a verificare i valori che, col tempo, scemano (…).; di Mosè che conduce il  suo popolo nella terra promessa, che io appia, ce ne è stato  uno solo! Per quanto ci rigurda qui inizia il rinnovamento dell’IdV: la liberazione dal padre, con tutto il rispetto s’intende, affinché siano liberate le nostre  potenzialità (se ne abbiamo!) di crescita nella conoscenza e coscienza dei prevalenti «valori» che mossero gli inizi.

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