I familiari respingono il figlio sordo

Le ricerche sui genitori udenti con figli sordi hanno messo in evidenza l’impossibilità d’accettare la condizione della menomazione uditiva. Il primo ostacolo che spaventa la madre, il padre e qualsiasi altro familiare è la Barriera di comunicazione. Considerata molto peggio delle “barriere architettoniche” che inquietano i genitori dei disabili motori. Perché costoro sanno che cosa fare, mentre i genitori dei sordi barcolano nell’ignoranza. La mamma è frastornata, confusa dalla traduttrice  vista in televisione che, con maestrìa, interpreta in lingua dei segni le notizie lette dal telecronista. «Potrei apprendere qualche segno» riflette tra sé e sé. Tuttavia col passare il tempo dalla diagnosi della sordità non decide, rinvia sine die. La logopedista, con la quale si è confidata, la scoraggia. «Vuole scherzare, signora?! Se si mette a gesticolare suo figlio non imparerà più a parlare! Solo la lingua verbale gli permetterà l’accesso alla normalità, integrarsi.» A poco a poco, invece di intraprendere la modalità di una comunicazione corretta fondata sul processo visuomanuale per comunicare col bambino, finisce per respingere tutto ciò che è espresso con le mani, viste girellare come ali di farfalla impazzite attorno al corpo del figlio (…). Perciò è sollecita a cambiare canale televisivo quando appare, accanto al telecronista sulla finestrella  del video, l’interprete. «Meglio che il bambino non la veda, potrebbe sorgergli lo sghiribizzo di imitarla» dice al marito. In cuor suo pensa che se il piccolo apprendesse quell’inconsueta modalità di comunicazione sarebbe confessare la sconfitta dell’acquisizione del linguaggio dei normali (!) ai parenti, agli amici e conoscenti, dire chiaro che il figlio è «sordo», «handicappato». Nell’altalena di rinvio sorge il dubbio se i segni, «i gesti» come li definisce, veicolano il pensiero e le emozioni.      

E’ difficile convincere una madre udente ad imparare la LIS perché, per farlo, dovrebbe possedere estese nozioni psicolinguistiche e conoscenze dei processi psicocognitivi. Che raramente ha. Qualcuna di loro si avvicina ai corsi di lingua dei segni dopo aver avuto informazioni da un insegnante di sostegno che ha sentito dire ad un convegno che «la lingua dei segni è importante per i bambini sordi (…)». Nel frattempo impone al figlio le proprie labbra per la labiolettura, pretende che il padre, i nonni e i parenti si adeguino al suo modo di parlare al bambino. Il piccolo - proprio perché la cognitività è sollecitata dall’input percettivo visivo - inventa gesti noti solo a lui o ai pochissimi che hanno la briga di seguirlo nella contorta comunicazione. La madre attende che la logopedista compia l’effeta, l’apriti evangelico. Oh, la questione è un’altra! La sordità, la signora non l’ha capito, non si doma. Perché sia vinta va raggirata con astuzia e intelligenza. Il bambino sordo chiede alla madre udente di imparare a comunicare con lui innanzitutto; poi deciderà lui a scegliere la modalità più efficace nell’interrelazione con gli altri, secondo l’interlocutore che avrà di fronte.

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