I sordi iniziano a frequentare la scuola residenziale

Alla fine degli anni Settanta del secolo scorso in Italia è stata emanata la riforma socio-sanitaria che metteva fine alle «mutue» e agli innumerevoli «enti inutili». Così erano indicati gli enti che gestivano l’assistenza degli handicappati, secondo la tipologia della disabilità. Il Sistema Sanitario Nazionale del 1978 delegava dapprima alle regioni, successivamente agli enti locali che -  faticosamente - creavano strutture adeguate per la riabilitazione secondo la specifica disabilità. L’anno precedente, nel 1977, con la legge 517 le scuole territoriali aprivano le proprie classi agli handicappati. Gli «istituti dei sordomuti», gestiti per lo più da congregazioni religiose, dall’ENS e dallo Stato (solo tre a livello nazionale) si svuotavano lentamente (…). I sordi iniziavano a frequentare le classi comuni, sebbene i docenti capaci d’insegnar loro il far di conto, qualche frase scritta e l’avvio all’apprendimento ce ne erano pochi. Costoro, incapaci confessi davanti all’autorità scolastica e sociosanitaria, lasciavano che dell’allunno se ne occupasse la logopedista. Costei, in quegli anni, si presentava nella scuola territoriale competente del comune in cui prestava servizio, si appropriava dell’alunno portandoselo in un’apposita aula, strutturata per la bisogna, e iniziava a far di tutto: logopedia e programmazione didattica. Il suo procedimento era esclusivamente oralista. Il metodo orale del 1880 di Mons. Giulio Tarra era vangelo, alzandolo ogni volta che qualcuno la contraddiva. Ma ce ne erano pochissimi di insegnanti che osavano ostacolarne le proposte di «recupero alla parola» (v. Scuola di Silenzio, Lettera ad una Ministro (e dintorni), Armando editore, Roma 2005 segreteria@armando.it). Aveva l’egemonia dell’alunno. La buona fede era supportata da programmi di studi nelle più variegate scuole della penisola dove, zelanti otorino e audiologi (questi ultimi stavano proponendosi per la nuova specializzazione), le addottrinavano su programmi per «l’insegnamento del linguaggio ai sordi». All’inizio il titolo che veniva loro rilasciato era  indefinito, per esempio aveva denominazioni diverse: «tecnico di logopedia», «ortofonista», «tecnico di riabilitazione fonica» e così via. Solo nei decenni successivi si arriverà ad un ordinamento didattico comune, sino all’istituzione dei corsi universitari di oggi. Dunque la presenza del sordo nella scuola territoriale non era prettamente apprenditivo-didattico, ma logopedico-riabilitativo. Là dove era necessario un docente specializzato, per attivare una didattica appropriata, si forniva un “riabilitatore” per il semplice fatto che le mamme s’erano coalizzate con la fisima di volere per i figli l’acquisizione della lingua verbale, sollecitate da un’agguerita associazione di genitori di sordi che puntava contro i ghetti in cui lo Stato aveva rinchiuso «i poveri sordomuti». Le “logopediste” di allora erano assunte per chiamata diretta dai comuni. Il loro caposervizio era, di solito, il responsabile della sanità dell’assessorato dei servizi sociosanitari e scolastici. Molte di esse passavano l’intera giornata seguendo uno o due alunni del territorio comunale o zona. Ogni mese le veniva consentito di fruire il massimo delle ore di straordinario (spesso con proroga) dei contratti sindacali (….). Ognuna - in buona fede, si intende - aveva orrore che il proprio utente contattasse il simile e «imparasse i gesti». I bambini sordi crescevano isolati: uno qua e uno là. Mai potevano incontrarsi, vedersi in volto, confrontarsi. Ciascuna logopedista era gelosa di un modesto successo sia didattico sia logopedico. I docenti erano derisi quando osavano rivolgersi ai ragazzi sordi con qualche gesto convenzionale. «Poveretti, sanno solo gesticolare!». Col tempo, anche gli insegnanti che avevano buona volontà di comprendere la fenomenologia e adeguarsi alle esigenze dello scolaro, finivano per rinunciare e tirarsi da parte per lasciare completo spazio alla nuova Figura professionale.

Il problema è che lo Stato non si è mai adoperato per preparare il nuovo personale né di docenza né di riabilitazione per accogliere gli studenti sordi e/o audiolesi nelle classi comuni. Gli «enti disciolti», come l’ENS, l’UIC, o altre associazioni di categoria che avevano gestito, per decenni, scuole d’ogni ordine e grado, erano messi dapparte, bollati come promotori di ghetti, in cui l’handicappto - come veniva indicato - non poteva che restare in svantaggio, emarginato dal consorzio della società normale. La verità era esplicita solo ad alcuni: dietro la battaglia di deistitutizionalizzare la frequenza delle  «scuole speciali» dei sordi - e non solo loro! - si giocava un progetto politico della sinistra che voleva togliere risorse e privilegi agli enti ecclesiastici o agli enti a carattere associativo nei quali operavano dirigenti che non erano certo disabili, per lo più accondiscendenti alle pressioni politiche del ministro o capo di governo del momento: clientelismo e nepotismo che si ripercuotevano sulla qualità dell’insegnamento e della riabilitazione.

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