Il migliore insegnante dei sordi è il sordo
Sono convinto che il migliore insegnante per i sordi è il docente sordo specializzato perché - avendo sperimentato l’apprendimento per mezzo del canale visivo - saprà adoperare tutte le accortezze didattiche per portare l’alunno o lo studente ad apprendere i contenuti dello scibile. Per questo è necessario stimolare e favorire i sordi nella carriera di insegnanti.
Ebbene, sino a non molti anni fa, la professione di insegnante ai sordi era preclusa. Certamente ricorderete che nella riforma della scuola del governo Giolitti del 1923 del secolo scorso vi era un emendamento nella legge che affermava che l’insegnante della scuola elementare dovesse essere «di sana e robusta costituzione». I sordi, i ciechi, gli storpi (sic) erano banditi dall’insegnamento! Sino al 1990 l’emarginazione degli insegnanti sordi, pure in possesso di titoli accademici e di specializzazione, era la norma nelle scuole statali italiane. Ci è voluta un’apposita circolare ministeriale per eliminare la discriminazione. E pensate che l’accettazione dei «portatori di handicap» nella scuola pubblica è del 1977! Gli scolari sordi erano accolti nella classe delle scuole statali ma erano respinti gli insegnanti con la stessa menomazione snsoriale nell’attività didattica, non dico per gli studenti o scolari udenti, ma addirittura per insegnare ai simili!
L’Italia è uno strano Paese in talune scelte; nazione di ignoranti sui temi dei disabili. Sotto la coltre dell’umanismo del momento si celano secolari pregiudizi e timori. La verità è che nella metà degli anni Settanta si aprirono le porte delle scuole statali senza far precedere, tale accoglienza, con una campagna di sensibilizzazione sui bisogni didattici dei «diversamente abili», come li chiamiamo frettolosamente oggi senza dire più di tanto, anzi senza aggiungere altro perché o ci fa paura, o perché non abbiamo argomenti all’altezza di confrontarci.
Nel caso dei sordi, è accertato dai coetanei udenti frequentanti la scuola di allora, che nessuno spiegava loro le condizioni del compagno che «non sentiva bene», o altrettanto «non parlava bene». La prima azione che i docenti si proponevano era esorcizzare la disabilità dalla classe: e come farla se non che eleminando le vecchie parole con cui veniva indicata? Ecco perciò sùbito comunicare ai compagni di classe che il loro amico non era «cieco» ma non vedente; non chiamare «sordo» il compagno ma audioleso o non udente; tabù assoluto dire «non capisce niente» per chi aveva difficoltà enormi a sommare 1 più 2. I docenti si danno un gran daffare per sopprimire la terminologia obsoleta, a loro dire. Ma nessuna parola è vecchia se non ne portiamo un’altra altrettanto efficace per chiarire il significato di come agire o comportarci per tratare l’argomento. L’incapacità di approfondire, infatti, ha spinto i docenti a portare avanti una didattica uguale a quella adottata per il coetaneo normodotato; azione che esorcizzava la disabilità non avvedendosi che la ingigantiva perché non si davano daffare per superare lo svantaggio dell’apprendimento con una metodologia e didattica adeguate. In classe sia il docente cosiddetto curriculare sia di sostegno fanno a gara per parlare di normalità, di uguaglianza senza porsi l’elementare domanda che siamo tutti diversi sia nei processi d’apprendimento sia nelle moltiplice intelligenze (cfr. H. Gardner, Formae mentis, Feltrinelli). Un efficace apprendimento è nell’individuare l’intelligenza specifica: è evidente che, nel sordo, essa è caratteriizzata da un processo di stimolo visivo. I ragazzi udenti ricevono lezioni di tratare il compagno di classe - con problemi fisici o sensoriali - come se nulla fosse, anzi non tenerne assolutamente conto; si sorvola sulla specificità che rinnoverebbe il loro essere nella scuola, la routine e l’approccio interrelazionale di gruppo. Non è democrazia trattare tutti allo stesso modo: è una comoda scorciatoia perché non si è abbastanza preparati per risolvere i problemi che, l’alunno speciale, ci impone di risolvere. Il pressappoco, le affermazioni «sei come gli altri», «perché te la prendi? sei speciale!», eccetera, sono luoghi comuni che nascondono manchevolezza di seri studi e ricerche. La disabilità non è una malattia da curare con medicine o riabilitazione coatta: richiede il confronto continuo con lo studente al quale insegniamo, una continua invenzione di metodi e didattica differenti, creativi, perciò migliori del passato, impegno specializzato che si protrae per tutti gli anni dello sviluppo biologico e psichico: e non solo.