Potenzialità del bambino sordo nello sviluppo intrinseco al suo silenzio

 (7.05.2012) La principale questione di un pedagogista, che si occupa di bambini con problemi uditivi, non è né dovrebbe esere gareggiare con un collega che ha fama d’essere «bravo», bensì studiare quanto più potrà il bambino cosiddetto «normale», per trarne idea, alla fine, che il bambino per il quale opera od ha in carico è «più normale» del coetaneo che persegue il modello, abusato, d’uguaglianza agli udenti. Pertanto è suo dovere valorizzare e/o rendere accogliente, da parte dei genitori e di tutta la comunità, quel che è dedotto «meno» e che, al contrario, è qualcosa di straordinario nei processi di apprendimento e di sviluppo delle potenzialità psicocognitive diversificate.

E’ una riflessione che consiglio agli operatori in crisi del proprio lavoro, ai docenti che notano lacune didattiche nell’alunno, ai genitori che lamentano scarsa iniziativa autonoma di comunicazione verbale (…). Dobbiamo  renderci conto, dubitare insomma, che il bambino disabile nasconde valori che, perlopiù, non siamo sufficientemente preparati per inoltrarci nelle aree visive e cinesiche. Focalizzando meglio la problematica dobbiamo dire: il bambino sordo o ipoacusico è migliore del coetaneo psittacistico perché è originale (L.S. Vygotskij, 1936). Siamo noi pedagogisti e psicologi a non analizzare l’esperienza dello sviluppo psicolinguistico e cognitivo su schemi positivi! Allora perché  insistere modellando il bambino ipoacusico sul coetaneo udente se siamo ignoranti per conoscere le sue potenzialità  sperimentate/vissute nel Silenzio?

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