QUANDO IL SILENZIO SI APRE UN VARCO DENTRO LA PAROLA

di Giammario Maulo

All’origine della poesia di Renato Pigliacampo c’è il dramma della comunicazione: un mistero vissuto intensamente cerca un varco nella parola inadeguata a dirlo; un masso di marmo si libera dall’interno per diventare statua; si tratta di una variante del problema dell’arte che oscilla tra intuizione ed espressione, tra contenuto e forma.

E’ l’affresco di un autore che vive nell’arte della parola la sua condizione di silenzio: vi troviamo l’ esuberanza di un universo interiore che vuole materializzarsi nel segno grafico e fonico, l’esperienza di una persona che riassume in sé, fra nostalgia e rifiuto, il cambiamento sociologico del suo popolo e la trasmutazione dei suoi valori, la ricerca di un ‘oltre’ intuito ma continuamente sfuggente, il senso del tempo inesorabile che sembra rendere vani gli sforzi della liberazione e della conquista di un diritto, il dolore di una soggettiva ansia di amore non riconciliata, la sofferenza di una condizione di oggettiva limitazione carica di emarginazione e di ribellione e la differenza esistenziale fra determinazione a comunicare e difficoltà di decifrare.

Lungo questo percorso si snoda la gamma di motivi di cui è tessuto l’ultimo lavoro poetico dello scrittore, così versatile e così fecondo: la memoria dell’infanzia e il ritorno alle origini, il nomadismo geografico e spirituale, la costante di un paesaggio marchigiano di mare e collina sentito come metafora, gli affreschi di una vita corale della campagna, l’attenzione alla solidarietà e la critica al “controllo sociale”, la distanza dal ‘palazzo’ disattento ai problemi della diversità, la ribellione all’esilio, il furore comunicativo, la coscienza e la sofferenza del limite, la fatica di una parola-segno liberata dalla sua aspra materialità eppure così corporea e sensoriale, la pena del vivere oltre un muro che si fa voce, l’amarezza dell’incomprensione per il linguaggio visomanuale, il costante colloquio interiore che emerge dall’ isola del silenzio, il ripiegamento sulla sua problematica esperienza affettiva, gli improvvisi slanci gnomici.

A differenza dei testi precedenti, qui la ribellione per il limite e la passione civile cedono significativamente allo sguardo riflesso su un’esperienza amorosa intensa e lacerante; si stemperano, poi, in lirica, in metafisica a volte; sfumano, infine, in ricerca tutta intera alla solitudine, spesso interrotta dalla memoria di una tenerezza tutta corpo e suggestione, spesso attraversata dalla rabbia e dalla delusione, dal pentimento e da un ritorno atteso con tenerezza. Nella prima parte, in particolare, il poeta cerca di trattenere una gioventù che sfugge (‘eppure splendo di sole /d’una gioventù integra’), vive in sintonia con le onde del mare che mimano gli abbracci dell’amata, ritrova in un amore intriso di carnalità la capacità di sognare e di cantare (‘Ora ci sei tu, /artefice del ritrovato canto’); ma l’amore si rivelerà presto ambiguo e senza futuro (‘ora tutto m’è vago perduto e /sto solo a guardare il mare‘, ‘aggrappato al mio Silenzio / come àncora al fondo del mare’). La fugacità e il tradimento, infatti, riducono l’autore al nomadismo interiore (‘adesso fuggirò dal mondo’), inducono in lui un senso di ribellione e poi di abbattimento (‘ora tutto è spento, muto. / Mai più ascolterò il mare’, ‘tutto è nel ricordo, tutto’), una delusione pari all’innamoramento sincero che ne aveva segnato una breve stagione in modo così forte (‘quando tendo nel mio Silenzio / gli occhi sulle tue labbra / per decodificare la parola amore / già so d’aver visto il paradiso / perché mi rinnovo nel cammino / di speranza e nuova vita’).

La seconda parte segna gradualmente una svolta tutta agostiniana: ‘entrai nell’intimo del mio cuore sotto la tua guida’ (Confessioni). Ogni testo costituisce un passo del ritorno: la presa di coscienza, il rimpianto, la confessione, il pentimento, la richiesta di perdono, il senso del limite umano, l’invocazione, la parola fatta preghiera di tutto l’essere, la ricerca di un ‘cantuccio di cielo’, il dialogo col Dio biblico, la domanda aperta sull’esistenza di un oltre-cosmo, il tentativo di comprensione razionale dell’assoluto, la percezione di uno iato fra ragione e mistero, il senso ambiguo e tragico della morte come fine di tutto, la sospensione fra resurrezione e illusione, il timore/desiderio di perdersi nel cosmo, l’abbandono fìduciale a un Dio atteso, pur nella sensazione di una condizione in bilico fra tutto e nulla. La terza parte, più leopardiana, alterna nostalgia dell’amore perduto (’sei passata nel respiro del vento / volo desolato sul mio mare… / Tutto è andato’), slanci per una lotta inconclusa a favore degli audiolesi, reminiscenza del duro mondo dell’infanzia, amarezze della solitudine nell’isola del Silenzio (‘granello di deserto, ‘oggi parlo col mare’ ‘tu, mare, / restami fratello nel canto’), senso di esilio e di inutilità perfino della parola scritta, frustrazione e proiezione di sé oltre il tempo, perdita/immedesimazione nella natura, ricerca di una parola inferiore che apra al Verbum, tenera attesa di un amore che perdoni (‘aspetto sulla spiaggia / tu m’appaia accanto con l’ombra /avvolgente senza chiedere’ ’solo ora, piegato a guardare le onde / scopro che la vita discende al fine‘).

Anche lo stile, in questa silloge, si fa gradualmente più incline alle aggettivazioni mediane che agli squarci e alle impennate, alle parole più  familiari  che  alle  asprezze della lotta, all’interrogativo/appello che alla denuncia. Restano, tuttavia, ma meno che nei testi precedenti, tipiche forme di linguaggio franto, qua e là duro, ardito anche, privato a volte di connettivi, lontano dalla musicalità, segnato spesso da passaggi di timbro rapidi, anzi inattesi, che cedono alla spinta istintiva della mano e del cuore. Normalmente, invece, nei testi più brevi, la parola si fa interiore, il verso più limpido e lineare, il linguaggio meno crudo, e la varietà delle tematiche dell’anima si dipana in un vocabolario più ricco e articolato.

L’uomo-poeta trova nel dolore un percorso ed un discorso che attinge alla sorgente dove la parola e il silenzio coincidono: ‘Tu che vivi nel magma del mistero/ sai dirmi se la goccia (lacrima) è un morfema / del linguaggio dell’universo?’

Gian Mario Maulo

Macerata, 14 luglio 2004.

Prefazione alla silloge L’Albero di rami senza vento, Iuculano ediore, Pavia 2006.

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