Il discorso sulla terminologia per indicare sordo, sordità, eccetera

Quando parliamo di deficit dell’udito e/o di difficoltà di produrre il codice verbale di chi parliamo? E’ noto agli interessati più aperti e ai dirigenti dell’Ente Nazionale Sordi che, sino all’approvazione della legge n. 95/2006, nel nostro Paese era adottata la terminologia “sordomuto”, con riferimento al soggetto nato sordo o divenutolo durante l’età evolutiva. (Qui bisogna aprire una parentesi per definire l’età evolutiva  considerando il sesso, la cultura, l’alimentazione, il clima… ). Comunque sia, nelle commissioni medico-legali per l’accertamento della disabilità la consueta definizione ufficiale era: “soggetto affetto di sordomutismo non dipendente da cause di guerra o psichica” (cfr. legge 381/1970, art. 1). Questa etichetta dava fastidio ai genitori che portavano a visita fiscale, davanti l’apposita commissione, i propri figli e si adoperavano poi per la riabilitazione logopedica. A metà degli anni Settanta del secolo scorso frotte di familiari e operatori consideravano la logopedia la panacea per acquisire la lingua verbale, di fatto la normalità del sordo. Avevano obbrobrio del termine “sordomuto”, lo rifiutavano considerandolo escludente e che confessava che la società era incapace di riabilitare. Tuttavia il presidente della commissione medico-legale per l’accertamento del… sordomutismo doveva rapportarsi ad un riferimento legislativo per i futuri benefici economici, protesici e occupazionali del soggetto. Ma quasi tutti i genitori pretendevano  che il presidente della commissione evitasse  la terminologia “soggetto affetto di sordomutismo” per “soggetto affetto di grave ipoacusia bilaterale con difficoltà di apprendimento del linguaggio”. Aggiungendo: “invalidità al cento per cento” (sic). Non considerava cioè la legge 381/1970, come era evidente; per aggirare la terminologia “affetto di sordomutismo” scaricava il piccolo o il soggetto in età evolutiva sulla legge degli invalidi civili, vale a dire la legge 118/1970. In seguito le associazioni delle famiglie dei sordi regionali, raggruppate nella Fiadda, proposero e diffusero il termine “audioleso”, che letteralmente significa, come è noto, audio-leso, riferendosi all’apparato uditivo. Ci sono sordi italiani che riprendono il termine a livello derisorio. Se chiedi a qualche burlone: “Tu odi bene?”. “Oh no, ho l’audioleso!” intendendo riferirsi alla protesi acustica inefficiente, o ad altri accidenti collegati all’apparato dell’ascolto. Comunque sia, audioleso si diffuse rapidamente tra i familiari dei sordi per evitare che qualcuno insistesse sul termine “sordomuto”.

Nella lingua anglosassone, negli Stati d’Uniti non esiste il riferimento al termine sordomuto, ma semplicemente deaf, sordo. Perché i sordi americani giudicano il proprio body - non solo nei tre centimetri quadrati delle orecchie inefficaci, da cui la carenza delle difficoltà intelligibili della parola per inadeguatezza dell’orecchio interno - nella globalità della persona capace di utilizzare altre modalità di comunicazione, d’uscire dalla nicchia della mutezza. Questa riflessione condusse la maggior parte dei sordi statunitensi, e dei Paesi nordici, a prendere coscienza della sordità, non solo come evento personale ma soprattutto sociale. Le comunità, prettamente quelle dei Paesi la cui lingua è forgiata sul ceppo latino, convivevano nelle diatribe interne di apparire protettori del sordomuto nelle istituzioni, negli enti speciali (del resto lo stesso procedimento sociopolitico riguardava i ciechi, i “matti” e così via). In Italia c’era chi lucrava sul pietismo dei “poveri sordomuti”, anche per le cospicue rette sborsate dalle amministrazioni provinciali, basti pensare che, per il conseguimento della quinta elementare, i sordi erano tenuti in istituto dieci anni! (cfr. R. Pigliacampo, Lo stato e la diversità, Armando, Roma 1983). C’era dunque timore che la nuova terminologia confessasse le potenzialità dei sordi, venissero liberati dalla soggezione all’udente e, dall’altra parte, c’era la proposa confusa, nevrotica d’imporre il cambiamento del termine da parte delle associazioni dei familiari, senza ascoltare i protagonisti adulti, credendo bastasse abolire il disonorevole “sordomuto” e/o opporsi all’Ente Nazionale Sordomuti, che conservava nell’ingresso delle proprie sezioni la dicitura, per aver risolto il problema dell’integrazione scolastica e sociale, affermando alla comunità che “il sordo non è muto”, che “i sordi parlano” e frasi di questo effetto. Il casino era assicurato, ma se non c’è chiarità di termini non c’è nemmeno comprensione del problema di base o specialistico.

Dopo un periodo di titubanza i sordi scendono in campo. Sono d’accordo che il termine “sordomuto” ha fatto il suo tempo. E poi perché muto? Sono concordi delle loro capacità e possibilità di comunicazione con modalità differenti, ma ugualmente efficaci. Virginia Volterra e altri studiosi di lingua dei segni approfondiscono la struttura del linguaggio dei segni riprendendo le ricerche e gli studi dello statunitense William Stokoe. Negli anni 2005 e 2006 i sordi italiani dimostrano la loro unità e capacità organizzativa dopo che il Senato della repubblica aveva approvato il termine di indicarli “sordi preverbali”: e allora scendono compatti davanti alle Prefetture italiane, la loro civile e insistente protesta induce il Parlamento a modificare la legge per il termine “sordo”! Qui sorge un’altra considerazione (non stupisce chi s’inoltra nel composito mondo dei sordi e della sordità):  sordo “come”, “quando”, “quanto”?

   “La mia sordità” mi dice il giovane amico e studioso Dr Daniele Regolo “non è la tua.” E’ così. Gli rispondo con le stesse parole.

   Mi fermo.

   Nelle prossime tappe dell’Itinerario approfondiremo.

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