L’anno 1981: inizio di coscienzazione

L’anno 1981 è «l’anno internazionale delle persone handicappate». Non c’è città o paese in ogni dove dell’Italia dove non si celebri «l’handicappato» in ogni forma: le esperienze di vita nei vari settori di lavoro, di studio eccetera, la sessualità, l’approccio con le persone cosiddette normali, l’ambiente familiare, la scuola e altro ancora. Il termine «handicappato» è utilizzato in modo generico, approssimativo. Ma per ora fa comodo a tanti utilizzare questa parola che non chiarisce nulla. I convegni si susseguono l’un l’altro nelle scuole di ogni ordine grado. Presidi, in pompa magna, salgono in cattedra e davanti a colleghi, docenti e familiari dei «portatori di handicap» tengono interminabili sermoni terminanti immancabilmente con frasi ad effetto: «nella mia scuola l’integrazione è pienamente considerata, matura», «gli handicappati sono una risorsa per la nostra scuola», «nessuno è handicappato perché siamo tutti handcappati», «la presenza degli handicappati nella scuola è fondamentale per diventare normali». Avanti così: e chi più ne aveva più ne metteva. Siamo all’alba dell’apertura delle porte della scuola, della stessa società:  e tanti operatori sociosanitari e scolastici compiono svavarioni che saranno fatali in fututo per la reale integrazione scolastica e sociale. Quasi nessuno mette un po’ d’ordine nelle parole utilizzate. Eppure gli “esperti” dovrebbero sapere che il termine «handicap» è inglese, nulla ha a che fare con la disabilità fisica, sensoriale e psichica. Era all’origine utilizzato nella corsa dei levrieri e dei cavalli campioni. Il fatto d’essere invincibili quando partivano insieme agli altri aveva indotto gli organizzatori a farli partire indietro di cinque-dieci metri, vale a dire in handicap per rendere la vittoria incerta sino al termine della gara. Applicato al mondo dei disabili «handicap» significa dunque svantaggio. Ma se siamo così diligenti e preventivi formando persone professionalmente competenti e capaci di affrontare lo svantaggio, predisponendo strutture e strumentazioni adeguate l’handicap è annullato, resterà solo la disabilità. I sordi, per fare un esempio, possono partecipare ad un dibattito ed essere attivi se forniamo loro un interprete, il quale potrà essere labiale o di lingua dei segni, annullando l’handicap in quel determinato ambiente, sebbene resterà la disabilità dell’ascolto attraverso il canale acustico-verbale. Abbiamo scritto molto su questi argomenti (v. R. Pigliacampo, Lo Stato e la diversità, Armando editore, Roma 1983; Handicappati e pregiudizi: assistenza-lavoro-sessualità, Armando, 1994; Lettera a una Ministro (e dintorni), Armando, 2006; Lettera a una logopedista, Edizioni Kappa, Roma, 1996) denunciando che, in un paese democratico e civile, l’handicap non dovrebbe esistere. Pertanto affermare o dire «scuola aperta all’handicappato», «sessualità dell’handicappato», «psicologia dell’handicappto» e quanto altro è fuorviante. Occorre avere la preparazione di affrontare il problema della disabilità per eliminare la presenza dello svantaggio (l’handicap).

Il fervore dell’anno internazionale… dell’handicappato del 1981 è importante perché conduce il potere politico a rivedere le scelte compiute sino ad allora, per lo più segreganti, “nascoste” altrove per salvaguardare la buona fama di famiglie, la dignità di qualcuno, le decisioni di pochi o della stessa comunità. Ecco le note istituzioni speciali degli «istituti dei sordomuti», degli «istituti dei ciechi», degli «istituti dei matti» e via di questo passo. E’ presente un centro per tutti (sic). Le strutture territoriali appena nate (le Aziende sociosanitarie) con la legge 833/1978 devono confrontarsi a livello territoriale con i nuovi utenti. Nella fretta di recuperare il tempo perso «per il bene degli handicappati», come ammetteranno gli amministratori degli enti locali e i professionisti della riabilitazione, si scorda di studiare e valutare la forma della disabilità, talvolta inscindibile dai processi di apprendimento e dello sviluppo del linguaggio. Per esempio come è caratteristica nei sordi. Nel territorio di competenza dell’ASL il fervore di riabilitare, istruire e normalizzare dà alla testa a tanti. Guai a quegli assessori o sindaci che osano porre un minimo di verifica scientifica alle proposte di mamme e novelli apostoli di sanizzazione. Le logopediste bandiscono ai genitori che i figli sordi frequentino altri sordi perché «altrimenti imparano i brutti gesti». Propongono per modello l’udente, vale a dire il «normale». I sordi «devono parlare» e possono farlo solo se frequenteranno il gruppo udente. Se bazzicano l’handicappato resteranno handicappati. Affermazioni assodate e confermate dagli «esperti» che gironzolano, come corvi, dintorno alla preda. Il loro scopo è proporre, partendo dagli “handicappati”, nuove prospettive professionali, lavorative (…). La magior parte degli operatori  però scorda la persona per puntare ad una mera normalità (tutta da dimostrare) dando l’ostracismo alle esigenze  specifiche, dovute al buonsenso.

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